Contro l’odio e i conflitti creiamo un dizionario della pace
La docente risponde ai ragazzi: la paura nasce dalla fragilità
Fino a due mesi fa nel mondo c’erano 170 conflitti. Oggi il numero è ancora maggiore. Negli ultimi tre anni le guerre sono aumentate del 40%. Un dato che ci parla non solo di territori devastati, ma anche di vite spezzate. Alla fine del 2023, circa 400 milioni di bambini erano coinvolti in modo passivo nei conflitti: orfani, mutilati, uccisi, morti a causa di malattie o perché impiegati come soldati. Questi dati rispecchiano solo in parte la realtà: tra il 2005 e il 2022 almeno 120mila bambini sono stati uccisi in guerra.
E se i dati fossero aggiornati, cosa che non è possibile perché ogni giorno cambiano, ci restituirebbero un’immagine ancora più drammatica di quello che sta succedendo intorno a noi, come mostrano le due istantanee proiettate in Atrio Bassani: nella prima due soldati sono all’opera nel costruire una bomba, l’altra ritrae un bambino, solo in un mondo che non riconosce più. Di fronte a tali orrori, nella quotidianità può nascere un clima di accettazione della guerra oppure di rivolta contro la guerra.
Per questo servono degli strumenti che consentano di porre le basi per la costruzione della pace, che deve iniziare il prima possibile perché ha bisogno di radici profonde e abitudini solide. La costruzione della pace poggia dunque sia sulla consapevolezza intellettuale e culturale che sulla consapevolezza emozionale: non è l’odio il contrario dell’amore o dell’amicizia ma la paura, ed è la paura a costituire la base emozionale e sentimentale dell’aggressività.
Quindi, quali sono gli strumenti che ci possono orientare nel tempo dei conflitti globali? L’emozione della pace è un potente strumento. Papa Francesco ha sottolineato come, in un mondo di reciproca appartenenza, non si possa fare del male agli altri senza fare del male anche a sé stessi. L’emozione della pace, quindi, nasce dall’amore, dall’amicizia e dall’accoglienza, elementi fondamentali per una convivenza armoniosa. Lo scoppio di una bomba deve portare a immaginare il dolore che causa: storie interrotte e vite spezzate. L’appello è quello a costruire un “emozionario della pace”, un albero di emozioni con radici nella consapevolezza e nella conoscenza, da inviare ai leader mondiali che continuano a perseguire la guerra.
Nel nostro piccolo, possiamo contribuire costruendo un dizionario emotivo della pace. Questo richiede tempo e attenzione, per evitare di coltivare un pensiero oppositivo che porta all’odio e all’indifferenza. Bisogna educare il pensiero relazionale, dove l’altro non è un nemico, ma un compagno di viaggio. La rivolta di cui si parla è contro l’indifferenza, la sofferenza gratuita e la devastazione ambientale. Questa consapevolezza ci spinge a esercitarci nelle parole della pace, immaginando un mondo migliore grazie alla nostra attenzione e cura.
Come alimentare la pace? Il sentimento di ostilità può nascere dalla paura e dalla fragilità. È essenziale perciò recuperare l’empatia e mettersi nei panni dell’altro, superando l’odio. La narrazione e le favole possono aiutare i bambini a comprendere queste complessità, unendo intellettualmente ed emotivamente la realtà. Ogni atto di bene innesca una corrente positiva che travalica l’azione stessa. Non può esserci pace senza giustizia sociale, solidarietà e responsabilità. La pace non è solo assenza di guerra, ma presenza di condizioni dignitose per tutti. Infine, bisogna opporsi all’indifferenza e alla sofferenza, difendendo i valori della pace e dell’umanità. In alcuni casi estremi, anche la resistenza violenta può essere comprensibile, se vista come ultima risorsa per proteggere la propria comunità. Tuttavia, il messaggio centrale rimane quello di una rivolta pacifica e consapevole contro le ingiustizie del mondo.
Durante la conferenza, alcuni studenti hanno posto domande che hanno permesso di approfondire ulteriormente il legame tra pace e rivolta. Una delle prime ha riguardato il contrasto tra paura e odio, spesso alimentati da contesti culturali e politici, e la possibilità di costruire un terreno fertile per la pace. La professoressa Gramigna ha risposto spiegando che la paura nasce dalla fragilità, un sentimento che ci fa percepire gli altri come una minaccia e genera ostilità. Per superarla, occorre creare relazioni basate sul bene reciproco, perché “il bene non è astratto: si manifesta nelle relazioni, dove entrambi i soggetti ne traggono beneficio”. Alla domanda su quali rivolte pacifiche possano essere attuate, Gramigna ha proposto la creazione di un “dizionario della pace”, sottolineando che ogni gesto ha un significato simbolico e conseguenze che vanno oltre il momento. «Ogni atto di bene – ha affermato – innesca una corrente positiva che travalica il singolo gesto». Educare al simbolismo positivo e alla responsabilità nelle azioni può rappresentare un primo passo verso la costruzione della pace.
Un’altra questione cruciale ha riguardato il motivo per cui alcune rivolte portano cambiamenti positivi, mentre altre falliscono. La professoressa ha chiarito che la pace non può esistere in assenza di equità sociale: «Non può esserci pace in un paese dove si muore di fame o dove non esiste giustizia». La mancanza di condizioni dignitose per tutti mina le fondamenta della pace, trasformando il conflitto in una spirale senza fine. Parlando del paradosso di una comunicazione non pacifica, come nel caso dell’apparizione del presidente Zelenskij a un evento internazionale mentre il suo paese è in guerra, Gramigna ha sottolineato l’importanza della coerenza. «È un controsenso – ha affermato, che rischia di inviare messaggi ambigui e di alimentare incomprensioni».
La pace richiede un linguaggio chiaro e azioni che ne riflettano i valori. L’idea che la pace possa sembrare un’utopia è stata accolta con una riflessione incoraggiante: «La pace inizia dal nostro quotidiano. Nelle classi coese, dove si costruiscono relazioni basate sul rispetto, non esistono fenomeni di bullismo. È un esempio concreto di come la pace sia una scelta possibile, anche nel piccolo». Infine, gli studenti hanno chiesto come sia possibile parlare di pace in contesti dove i governi reprimono le rivolte con la violenza. Gramigna ha riconosciuto che, in situazioni estreme, la protesta pacifica può degenerare in violenza, soprattutto quando è l’unico mezzo per difendere la propria comunità. Tuttavia, ha concluso ribadendo che la vera rivoluzione per un mondo migliore passa da una rivolta pacifica, fondata sulla giustizia, sull’empatia e sulla solidarietà. La conferenza si è conclusa con un messaggio chiaro: la pace non è un traguardo irraggiungibile, ma un processo che richiede impegno quotidiano, giustizia sociale e il coraggio di scegliere la solidarietà al posto dell’indifferenza. Come ha sottolineato la professoressa Gramigna, ogni gesto di bene può generare un cambiamento, e il primo passo verso un mondo più giusto inizia con le nostre azioni e scelte consapevoli. E tu, lettore, quale parola aggiungeresti al dizionario della pace? l
Giulia Aguiari
Aluce Battilani
Maria Luna Pica
Classe 5T liceo Ariosto
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