Il pasticcio ferrarese vale un titolo nobiliare
L’Accademia Italiana della Cucina da tempo sta lavorando per dare la giusta rilevanza a questo piatto storico
Sembrano quindi aprirsi anche per il pasticcio di maccheroni, a torto o ragione considerato per anni il ‘reietto’ tra i piatti della tradizione ferrarese, le porte della canonizzazione. Tutto merito della vision dell’Accademia Italiana della Cucina, che dovrebbe a breve proporne la registrazione notarile della ricetta, come già fatto tempo addietro per la salama da sugo, cosa che corrisponderebbe né più né meno che ad un’investitura, per un piatto che, pur essendo ibrido, caratterizza da secoli la cucina della nostra città. Proporre un canone comunque si è rivelato sforzo non da poco per la struttura nazionale, nella cui sede di Ferrara circolano da mesi, raccolte con pazienza certosina, centinaia di ricette, ripescate nelle cucine della tradizione, spesso bussando porta a porta.
Ne parliamo con il dottor Marco Nonato, consultore della delegazione di Ferrara dell’Accademia, che nel suo ruolo di studioso della materia è stato il primo vettore del progetto. Tutto nasce, si narra, attorno al 1700, nella cucina di casa Giglioli-Maffei. «Il piatto è sicuramente mutuato dalla cucina del Sud - ci racconta lo studioso -, siciliana o napoletana, da dove sicuramente provenivano i maccheroni. Del resto era il periodo della Legazione Pontificia, a cui si deve senza ombra di dubbio la contaminazione. Parente stretto della pastelle rinascimentale della cucina del Messisbugo e dello Scappi, il piatto ha nella sua origine l’esigenza di fare durare il cibo più a lungo (ecco il perché della pasta avvolta nel suo involucro), ma in sé riassume diversi dualismi, involucro e contenuto, secco e umido, e soprattutto dolce e salato. Anche la stessa copertura, a forma di cappello di prete, presenta in sé diversi significati, il più immediato dei quali riguarda un messaggio di opulenza e abbondanza, anche perché si tratta di un pasto che veniva preparato e consumato durante il periodo del Carnevale, prima del periodo quaresimale; quindi sospensione degli stenti, esorcismo della morte e godimento della vita attraverso i piaceri del palato. Ricordiamoci anche che in periodo carnascialesco era per tradizione sospeso ogni rapporto gerarchico, tra ricco e povero, servo e padrone, accomunati nell’apoteosi del cibo, quindi questo tipo di cibo aveva significati molto più profondi di quelli che possiamo immaginare ora».
Ma la ricerca e l’interesse per questa pietanza non si fermano certo qui, dato che l’altro elemento di attrazione è costituito dagli stampi di cottura, molto spesso di rame, che venivano utilizzati per preparare questo sublime manufatto. «Tutto il simbolismo magico legato sia al carnevale che alla religione raggiunge qui la sua apoteosi - dice ancora Nonato -, dato che se come dicevamo la parte superiore del pasticcio ricorda sicuramente la forma del sole, sul fondo invece, grazie ai disegni ed alle incisioni praticate sugli stampi, venivano celati significati ancora più reconditi, molto spesso amplificati dal fatto che sotto il piatto di portata venissero posizionati degli specchi, in modo che il simbolismo fosse esplicitato solo ai commensali. Ecco quindi apparire losanghe per ricordare la maschera di Arlecchino, lune, ma anche stelle a cinque punte nelle case ebraiche (da cui la versione della ricetta con i funghi al posto della carne, ndr), eliche ed anche pentalfa. Un semplice cibo e si ricopre di significati che sfociano anche nella numerologia».
Un affascinante assemblaggio di componenti giocato attorno ad una base fissa, insomma, con l’indispensabile contributo del tempo e delle numerosissime varietà che ne hanno modificato le sfumature ma non estirpato il significato. Sopra tutto il culto della tavola, che come sappiamo non è culto solo delle nostre parti ma di tutto il Belpaese. Lo stiamo metabolizzando sempre di più. Viene da pensare a quanti gesti quotidiani fondamentali siano celati dalle abitudini, offuscati solo perché li ripetiamo giorno dopo giorno. Come un boccone di quella mescolanza di sapori portentosa che è proprio il pasticcio, capace di rievocare una memoria storica che andrebbe sempre preservata. Direzione nella quale vanno gli sforzi profusi dall’Accademia e dal dottor Nonato, i quali per questo non possiamo che ringraziare.
Riccardo Corazza
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