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Servillo chiude la stagione di prosa del teatro

di Samuele Govoni
Servillo chiude la stagione di prosa del teatro

Oltre 200 repliche per “Le voci di dentro” e l’attore torna a raccontarsi alla Nuova: «L’Oscar? Riduce la distanza con i sogni»

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di Samuele Govoni

“L. e voci di dentro”, la commedia scritta da Eduardo De Filippo nel 1948 chiude la stagione di prosa del teatro Abbado. Da questa sera alle 21 e fino a domenica (ore 16), il fratelli Toni e Peppe Servillo saranno in città. Un felice ritorno quello di Toni che manca da Ferrara dal 2011. Pochi mesi dopo ci fu il terremoto e il camaleontico attore partenopeo concesse alla Nuova una bellissima intervista in cui ripercorreva il suo rapporto con il teatro e la città estense. Oggi, a distanza di quasi due anni, l’abbiamo ricontattato e lui, si è concesso ancora.

“Le voci di dentro” è generalmente considerata la commedia più amara di De Filippo, perché secondo lei?

«Eduardo pone al centro di tutto il suo teatro il conflitto fra l’uomo e la società. Le voci di dentro descrive ancora oggi il precipizio morale in cui siamo caduti e la difficoltà di orientamento in una realtà indistinta e compromessa. È la commedia dove Eduardo, pur mantenendo un’atmosfera sospesa fra realtà e illusione, rimesta con più decisione e approfondimento nella cattiva coscienza dei suoi personaggi, e quindi dello stesso pubblico, ritraendo, con acutezza, una caduta di valori che avrebbe contraddistinto la società, non solo italiana, per i decenni a venire. L’assassinio di un amico, sognato dal protagonista Alberto Saporito, che poi lo crede realmente commesso dalla famiglia dei suoi vicini di casa, mette in moto oscuri meccanismi di sospetti e delazioni. Si arriva ad una vera e propria atomizzazione della coscienza sporca, di cui Alberto Saporito si sente testimone al tempo stesso tragicamente complice, nell’impossibilità di far nulla per redimersi. Incapace di distinguere la realtà sognata dalla realtà vera che lo circonda incalzandolo altrettanto implacabilmente».

Lei afferma che «siamo tutti vittime dell’indifferenza», in che senso?

«Il valore principale del teatro e in parte oggi anche del cinema è quello di assemblea civile, per mettere al centro l’uomo e la comunicazione profonda, favorendo una riflessione sempre più necessaria in un’epoca in cui siamo sempre più circondati da confusione e rumore. La crisi è a tutti i livelli in Italia e nasce anche dall’indifferenza sociale. Il teatro è un fortilizio della nostra lingua e della nostra cultura e un importante strumento di aggregazione. Finché il sostegno al teatro e alla cultura in generale verrà considerato un capitolo di spesa e non un investimento necessario, precipiteremo sempre di più nel buio e nella disumanizzazione».

In scena recita insieme a suo fratello Peppe. Che effetto vi fa essere fianco a fianco anche sul palco?

«Io e Peppe abbiamo già fatto esperienze insieme di teatro musicale come in Sconcerto, su testi di Franco Marcoaldi e musica di Giorgio Battistelli, con alcune importanti orchestre sinfoniche. E ci è capitato anche qualche volta di cantare insieme. C’è un codice familiare che ci lega, un legame fraterno che si è consolidato con le nostre reciproche scelte. Quando ho deciso che, dopo Goldoni, sarei tornato a Eduardo ho subito pensato a Peppe. Ci somigliamo, ci capiamo, condividiamo la stessa cultura. Averlo al mio fianco in questo spettacolo, che alla fine della stagione, con l’ultima recita a Torino il 1 giugno, supererà le 220 repliche, è una fonte inesauribile di energia, crescita, condivisione. Essere due veri fratelli, per giunta nel ruolo di due personaggi a loro volta fratelli, moltiplica l’aspetto seduttivo che la commistione di realtà e finzione opera sul pubblico, proponendo un invito a sciogliere la relazione scenica fra studiata naturalezza e calcolata immediatezza».

Facciamo un salto a “La grande bellezza”. Come è stato sentire il fatidico “the Oscar goes to...” agli Accademy?

«Quando l’abbiamo sentito io e Paolo Sorrentino ci siamo guardati. Nessuna parola solo uno sguardo incredulo e felice che riassumeva tutto. L’Oscar rappresenta una novità, inaspettata ed imprevedibile, ma è per me soprattutto un modo di ridurre la distanza con i sogni. Non sono un figlio d’arte, ma sono cresciuto in una famiglia di spettatori e di grandi appassionati di teatro e di musica. Quando ho cominciato nella seconda metà degli anni Settanta, ancora da studente, insieme ad altri coetanei, in una piccola città come Caserta, speravo mi che accadesse tutto quello che sta accadendo a teatro. Il cinema invece è arrivato più tardi, come una gradita sorpresa, dopo i quarant’anni».

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