Roveredo racconta la vita alla “pazza” Cecilia durante un ballo
«Lì ho imparato a salutare con l’abbraccio». Questa è la frase che Pino Roveredo pronuncia nel corso della nostra intervista sulla sua ultima fatica letteraria, la seconda edizione di Ballando con...
«Lì ho imparato a salutare con l’abbraccio». Questa è la frase che Pino Roveredo pronuncia nel corso della nostra intervista sulla sua ultima fatica letteraria, la seconda edizione di Ballando con Cecilia (Bompiani), e che meglio dà l’idea dell’umanità che caratterizza gli ospiti del Padiglione I. Il testo è autobiografico, l’autore narra la sua esperienza come animatore durante la metà degli anni ’90 all’interno di un ex-manicomio. In questa struttura egli ha incontrato appunto Cecilia, che dei suoi 96 anni di vita, 60 ne ha vissuti lì dentro. Come dice Roveredo, «Ballando con Cecilia è un libro che grida amore» ed in effetti questa è la cifra stilistica che pervade il romanzo.
La protagonista era commessa in una pasticceria, prima di conoscere le strutture psichiatriche, detestava i ragazzi perché nessuno l’aveva portata a ballare. Il titolo deriva appunto da un ballo tra lo scrittore e la protagonista, durante il quale lui le racconta gli ultimi sessant’anni di storia che lei non ha potuto vivere. Roveredo parla della libertà mentale che caratterizza queste persone, quelle che noi cosiddetti “sani” definiamo “pazzi” e della necessità del linguaggio gestuale per entrare in comunicazione con loro, da cui appunto l’importanza dell’abbraccio, obbligatorio per salutarsi, perché mica puoi dire buongiorno a una persona che il giorno non lo vive ma lo subisce in uno spazio chiuso, caratterizzato dai monotoni gesti quotidiani.
Roveredo ci riferisce un episodio legato alla rappresentazione teatrale di Ballando con Cecilia. A Trieste qualcuno portò Cecilia a teatro e lei iniziò a commentare ad alta voce, disturbando il pubblico. A fine spettacolo l’attrice che impersonava Cecilia la indicò dal palco, e il pubblico capì ed applaudì.
Chiedo all’autore cosa pensa dell’attuale situazione dei centri di salute mentale. Lui racconta che ha conosciuto di persona Basaglia e ha sempre visto in lui la rivoluzione, anche per il semplice fatto di andare a visitare i pazienti senza camice. Ma ha avuto due difetti: «Essere nato troppo tardi e morto troppo presto. Se oggi potesse svegliarsi sarebbe molto arrabbiato, perché non è vero che i manicomi non ci sono più, si sono solo addolciti».
Alla fine gli chiediamo del suo rapporto con Ferrara, non solo perché l’editrice è Elisabetta Sgarbi. L’autore usa parole di grande amore per la nostra città, definendola anche molto «aperta culturalmente» ed esprimendo il desiderio di venire a viverci. Purtroppo, nota Roveredo, forse questo amore verso Ferrara è più sentito dai forestieri che dai ferraresi stessi.
Veronica Capucci