La Nuova Ferrara

Ferrara

Aldrovandi: il dolore del padre, l’accusa del poliziotto

di Daniele Predieri
Aldrovandi: il dolore del padre, l’accusa del poliziotto

Parla il papà Lino: «Siano i sindacati e tutti gli agenti dall’interno a cacciare i 4 condannati per la morte di mio figlio»

04 maggio 2014
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Ogni volta che vede e sente, in Tv, alla radio o sui giornali, si deve sdoppiare come persona. Lino Aldrovandi, papà di Federico, da una parte mette il poliziotto e l’uomo, dall’altra il padre: «Ho dovuto imparare questa tecnica per sopportare il dolore, nel veder ancora oggi le immagini di mio figlio, a terra, massacrato di botte (nella trasmissione di La7, di Mentana di venerdì sera, ndr): e allora mi devo sforzare e dire ‘quello non è mio figlio’. E’ terribile e disumano perché soffro e non si può immaginare quanto. Ma allo stesso tempo mi dico che è giusto che il mondo veda cosa hanno fatto a Federico, affinchè quelle immagini siano un monito per tutti i poliziotti che svolgono un lavoro prezioso, a disposizione dei cittadini, dai più deboli ai più forti. Perché questa tragicità faccia riflettere, tutti e i tanti politici che aprono bocca, per dir solo sciocchezze: pensino solo se il figlio là a terra, morto, fosse stato loro, e non cambia se era un delinquente, un santo, non deve cambiar nulla».

L’hai sentito migliaia di volte in tutti questi anni, Lino Aldrovandi: sei preparato come giornalista, ma ogni volta ti paralizzi, butti dentro le lacrime perché non le «veda», le «senta», anche al telefono. Non riesci nemmeno a fare le domande più banali del mondo, ad un padre. E allora, le fai al poliziotto (è ispettore di polizia municipale ad Argenta). Da poliziotto a poliziotti, a quelli che hanno applaudito, a quelli che chiedono la revisione del processo, a quelli che vogliono mettere in discussione la sentenza definitiva sulla morte di Federico, cosa si sente di dire?

«Una cosa semplice e terribile: che ho dovuto dare in pasto al mondo mio figlio, dovevo farlo per far vedere a tutti qual era ed è stata la realtà del suo e del nostro dramma».

Una realtà quasi negata, però, visti gli applausi, i veleni, le dichiarazioni boomerang che Lino, Patrizia Moretti e la famiglia da ormai 10 anni sono costretti a sopportare. «Sugli applausi al congresso Sap di Rimini dico solo che non è un gesto di democrazia, la morte è qualcosa, per me come poliziotto e non come padre (e anche qui mi devo sdoppiare) che non posso nemmeno ipotizzare. Il giudice Caruso nella sentenza di primo grado scrisse che occorre essere in grado di dar giustizia a tutti in maniera uguale, a Federico come a Rasman, Cucchi, Uva, Magherini. E non possiamo pensare che ci siano Patrizia, Ilaria, Lino e le famiglie delle vittime e i loro avvocati, da soli ad accendere la giustizia che dovrebbe garantirci, tutti come cittadini, dal povero al più ricco, dal più buono al più cattivo». Da poliziotto a poliziotti, anche lei è spesso là fuori: «Quando sono fuori come poliziotto, se ho una persona tra le mani, io rappresento lo Stato, non me stesso. E debbo rispettare lo Stato di diritto: gli applausi ai 4 poliziotti condannati per mio figlio, ai 4 delinquenti e pregiudicati (nel senso giudiziario del termine, per chi ha sentenza definitiva, così come Berlusconi, per intenderci, ndr), quelli sono uno schiaffo allo Stato». Ma qui, un pezzo di Stato, non si ferma nemmeno davanti alle sentenze definitive. «E allora io da poliziotto a poliziotti dico, provocatoriamente, che vorrei un sindacato che raccolga le firme, non le firme dei cittadini, ma dei poliziotti, per cacciare e allontanare dalla polizia i condannati che vengono applauditi. Dicano tutti con nome e cognome, come faccio io: io, Lino Aldrovandi, ispettore di polizia, poliziotto dalla parte dello Stato, chiedo che chi ha diffamato la mia immagine sia cacciato. Niente gogna, nessuna persecuzione, lo dico forte delle tante manifestazioni di solidarietà». Da parte di poliziotti, forse di quelli che non avrebbero applaudito? «Sì, tanti, tantissimi, li ringrazio. Uno su tanti, il 1° maggio mi chiama al telefonino. Mi chiede ‘Lei è Lino Aldrovandi?’. E’ una donna, scoppia a piangere, mi dice di essere un’ispettrice di Palermo, con un fratello poliziotto ucciso dalla mafia. Mi dice di aver due figli, uno di 29 anni, come avrebbe quasi Federico: ‘Le sono vicina - mi dice - veder Federico morto è come veder mio figlio stesso’: parole che sono un regalo». Ora l’onorevole Bratti del Pd propone una commissione di inchiesta, politica su tanti casi Aldrovandi, Cucchi, Uva. «Penso sia giusto ma che non faccia la fine di quella sul G8: si dovrebbe appoggiare qualsiasi iniziativa della politica, di destra e sinistra, se vuole far qualcosa per i cittadini».

Ultima domanda al padre di Federico: sua moglie Patrizia prima di perdonare i 4 poliziotti che hanno ucciso Federico, attende la verità. E lei? «Perdono?» sorride amaramente: «I poliziotti non debbono avere il perdono da me, lo chiedano pubblicamente a Federico: io come padre non potrò mai concederlo. Non so cosa sia il perdono, so cos’era il sorriso di un bambino...diventato ragazzo, mai diventato uomo».