Il prof. Barbujani sulle tracce dei geni di San Luca
Padova, basilica di Santa Giustina, 17 settembre 1998. Si apre una cassa di piombo, sigillata da oltre quattro secoli, che contiene i resti di un uomo senza testa. La tradizione cattolica vuole...
Padova, basilica di Santa Giustina, 17 settembre 1998. Si apre una cassa di piombo, sigillata da oltre quattro secoli, che contiene i resti di un uomo senza testa. La tradizione cattolica vuole appartengano all’evangelista San Luca. Il vescovo Antonio Mattiazzo decide di farla verificare dalla scienza e nomina un’equipe di studiosi: insieme a patologi, archeologi, botanici, numismatici e radiologi c’è anche Guido Barbujani, genetista. Il docente universitario a Ferrara ha riportato questa sua esperienza in un libro, “Lascia stare i santi. Una storia di reliquie e scienziati” (edito da Einaudi).
Professor Barbujani, quindi fu lei a ricevere l’incarico di “rompere i denti” a San Luca, come scrive letteralmente? Che si prova ad avere a che fare con un santo, almeno presunto?
«È stata un’esperienza del tutto particolare, iniziata quando venni contattato da un patologo padovano che mi conosceva di persona. Il mio contributo contemplava lo studio del Dna estratto dai denti che si erano salvati, con l’obiettivo di cercare dentro lo smalto le tracce genetiche della sua origine, o meglio delle sue possibili parentele con gente attuale che vive nel Mediterraneo orientale. San Luca infatti nacque in Siria».
Il suo rapporto con il vescovo Mattiazzo come fu, lei che è un non credente?
«Lo incontrai tre volte. Quando dissi che avrei dovuto distruggere la reliquia, che poi ho conservato per un po’ in questo cassetto (lo scienziato lo indica dentro il suo ufficio al dipartimento di Scienze della vita, ndr), mi aspettavo che qualche brivido scorresse lungo la schiena di un uomo di Chiesa. Invece monsignor Mattiazzo ha dimostrato un approccio molto laico, dicendo ai componenti della commissione: “Voi dovete fare il vostro lavoro, il culto è un’altra cosa e non richiede l’autenticità”. Prevedendo poi che dai singoli contributi non sarebbe arrivata nessuna sintesi, direi che ha compreso il concetto di probabilità in modo più efficace di molti miei colleghi».
Lei si dovette recare in Siria, una missione molto avventurosa.
«Certo, non mi sarei mai aspettato di trovarmi chiuso in un ascensore, fermo tra un piano e l’altro di un palazzo di Aleppo, assieme a un colonnello dell’esercito siriano. Mi aveva chiesto più soldi di quanto pattuito, 450 dollari anziché 300, per consegnarmi dei campioni di sangue che avrei dovuto portare in Italia. Tutte le fasi si sono svolte all’insegna dell’illegalità, in Siria non si poteva fare altrimenti».
In quel Paese rimase appena una settimana, ma è riuscito a ricavare qualche impressione su una realtà che quindici anni dopo è scossa dalla guerra civile?
«Tutti quelli con cui ho parlato erano consci di vivere sotto una dittatura, quella di Assad padre. Un regime comunque estremamente tollerante dal punto di vista religioso, tanto che i cattolici erano terrorizzati da un cambiamento politico che avrebbe potuto favorire settori islamici integralisti».
Senza svelare nei dettagli le conclusioni cui è arrivato, darebbe ragione a chi dice che nessuno saprà mai quale cadavere sia stato veramente messo nel sepolcro, se non appellandosi alla propria fede?
«Direi di sì, a costo di deludere i miei amici dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, che ci rimangono sempre un po’ male quando non si sbugiardano le religioni. Credo che in questa vicenda sia stato molto interessante il percorso che mi ha portato ad approfondire le vicende storiche su San Luca e ad entrare in contatto con un mondo sconosciuto. Dobbiamo capire che non tutte le ricerche scientifiche portano a un brevetto, che fare scienza è doversi muovere costantemente nell’incertezza, senza sapere dove si va a finire. Anche questo è il piacere della conoscenza».
Fabio Terminali