La Nuova Ferrara

Ferrara

Trigabolo e Westvleteren XII, storie di ‘miti’

Trigabolo e Westvleteren XII, storie di ‘miti’

Viaggio parallelo fra due realtà che hanno portato la gente a parlare di mitologia anche nel mondo della gastronomia

31 maggio 2014
3 MINUTI DI LETTURA





Nemmeno il mondo della cucina si sottrae al fascino del ‘mito’, anzi, molte delle leggende che lo popolano hanno la succulenza di una pietanza ben realizzata. Peraltro il termine ‘mito’ (di ascendenza greca) e le vicende che sottende, ammantate di sacralità, si alimentano grazie alla tradizione orale. È il caso di un mito delle nostre parti, il ristorante Trigabolo di Argenta. La leggenda racconta (e qui ringraziamo Stefano Bonilli, eccezionale giornalista gastronomico e creatore del ‘Gambero Rosso’, per l’apparato storiografico) che tutto ha inizio nel 1979, quando Giacinto Rossetti, di mestiere rappresentante di giocattoli, e il socio Gualtiero Musacchi, rilevano una pizzeria ad Argenta. Decidono, profeticamente, di assumere un giovane ma dotatissimo cuoco, un tizio di cui si dice già un gran bene, un certo Igles Corelli. Igles a sua volta ‘nomina’ un diciasettenne talentuoso che è già stato in brigata con lui, Bruno Barbieri. Il terzo di quella che a breve verrà definita ‘una rock band’ è un altro giovanissimo, pasticcere, appena uscito dalle scuole professionali, Bruno Gualandi. A questo terzetto si aggiunge un maître assolutamente atipico, ovverosia Bruno Biolcati. Da quel momento ha origine l’esperimento culinario che sconvolgerà la gastronomia italiana. Attenzione. Tutti noi sappiamo dove stia Argenta. Proprio per questo, i rockers, che sono, come diceva Rossetti, ‘terragni’, distanziandosi da tutto ciò che andava di moda allora, cucinano usando prodotti dell’orto, spezie, una cacciagione di qualità inverosimile, realizzano una pasticceria di un’innovatività sconcertante (basti pensare ai celeberrimi bigné fritti caramellati che, accidenti, avrete pur sentito nominare anche voi), per non parlare della cantina: ed ecco, il miracolo è fatto. Una stella, due stelle Michelin, fino alla terza, conferita (fatto assolutamente eccezionale) ad honorem, quando ormai il locale non esisteva più; con un finale, peraltro, tuttora ammantato dal mistero, come ogni leggenda che si rispetti.

Cambiamo rapidamente scenario e ci rechiamo in Belgio, non proprio una delle mete gastronomiche più note. L’abbazia trappista di San Sisto di Westvleteren è oggettivamente un luogo ameno, ma ha poco da offrire a coloro che desiderano ammirare l’architettura ecclesiastica. L’edificio del diciannovesimo secolo - basso, fatto di mattoncini e con una struttura semplice e funzionale - si trova in una dimessa strada di campagna vicino al confine con la Francia. Eppure il grande parcheggio per i visitatori è un indizio importante, anche se, strano a dirsi, i turisti non vengono per cercare di intercettare i monaci o per una preghiera. San Sisto infatti è luogo mitico sì, ma per gli amanti della birra. L’abbazia e il suo manufatto più celebre, infatti, la mitologica Westvleteren XII - una dark strong ale - ottengono da dieci anni (ovvero da quando il sondaggio è stato lanciato) il primo o il secondo posto nella classifica annuale votata dagli appassionati di birra. E fin qui ci sarebbe niente di strano, se non un’impressionante costanza di rendimento per un’attività completamente artigianale, dato che i monaci che curano la produzione sono 10 in tutto, ed utilizzano (con rarissima padronanza) la ricetta originale, che si dice sia del 1590. Il fatto strano è che la birra sostanzialmente non è distribuita nei canali ufficiali. In sovrappiù i visitatori ne possono acquistare soltanto due casse, ad un prezzo non monastico, dopo essersi sottoposti ad uno snervante controllo preventivo, avere fornito generalità e numero di targa della vettura, avere promesso un riserbo che nemmeno in Fight Club. Normalmente tante complicazioni ci infastidirebbero. Sfortunatamente siamo tra i pochi ad avere provato l’esperienza, e proprio per questo non ne possiamo parlare a cuore leggero. Anzi, Per una volta non abbiamo parole adatte a descrivere l'esperienza. Mettiamola così: se fosse davvero possibile ‘imbottigliare il mito’, i monaci, dannazione, ci sono davvero riusciti.

Riccardo Corazza

©RIPRODUZIONE RISERVATA