Inchiesta Mose, la finanza arresta un tecnico a Ferrara
Per Gino Chiarini, millantato credito e favoreggiamento: per soldi si fingeva intermediario di un giudice e aiutò un latitante
FERRARA. I finanzieri sono arrivati a Ferrara da Venezia, hanno bussato nella casa della zona Acquedotto e hanno notificato l’ordine di arresto a Gino Chiarini, tecnico-imprenditore ferrarese legato all’Impresa Mantovani e Consorzio Nuova Venezia, al centro della maxi inchiesta sul Mose di Venezia: un arresto il suo che procura e giudici di Venezia hanno deciso nell’ambito dell’indagine deflagrata ieri che ha innescato un terremoto giudiziario (35 arresti con il suo). I fatti contestati a Chiarini, che risiede in città ma lavora da tempo in Veneto, sono marginali rispetto la grande corruzione e frode fiscale, ma altrettanto gravi per come si sono consumati secondo le ipotesi d’accusa: gli vengono addebitati episodi di millantato credito e favoreggiamento per avere fatto credere di potere aver influenza su un magistrato e condizionare le indagini sulla azienda Mantovani di Piergiorgio Baita (vedi articolo sotto) e sul Consorzio che stava costruendo il Mose. E anche per aver aiutato un latitante, suo complice nel millantato credito. Tutti fatti che si sono concretizzati nell’ambito della grande inchiesta veneziana, in corso da 3 anni, che ha messo in luce la commistione di frodi, corruzioni, riciclaggio di denaro, truffe e raggiri. Per tutta la mattinata di ieri dopo l’arresto di Chiarini, si sono succeduti gli atti formali con le pratiche di rito, del fotosegnalamento (che preludono l’arresto in carcere, perquisizioni e acquisizioni documentali e altro). I colleghi della Finanza di Venezia hanno fatto tutto da soli: del resto l’inchiesta condotta da almeno tre anni necessitava il massimo riserbo e così è stato. I due capi di imputazione (due di numero, i capi 34 e 37) per cui il gip Alberto Scaramuzza ha deciso l’arresto di Chiarini, assieme agli altri 35 in tutto (25 in carcere, compreso lui e 10 ai domiciliari)sono più che eloquenti. A Chiarini vengono contestati due reati contro la pubblica amministrazione: uno per aver fatto credere - assieme ad altri coindagati (Luigi Dal Borgo, Mirco Voltazza, Alessandro Cicero, Vincenzo Manganaro) - di aver avuto rapporti con un magistrato, il procuratore di Udine, Raffaele Tito sostenendo che avrebbe potuto avere informazioni dall’ufficio giudiziario e che avrebbe potuto influenzare le indagini a carico del Consorzio Venezia Nuova e della Impresa costruzioni Mantovani di Padova, di Baita. Secondo l’accusa, Chiarini era indicato da Mirco Voltazza come intermediario del magistrato, e veniva ricompensato con somme tra 50 e 200 mila euro. Mentre gli altri suoi complici con questo millantato credito ricevano soldi e consulenze milionarie per le proprie imprese da Piergiorgio Baita e Giovanni Mazzacurati, uomini chiave del grande progetto Mose, arrestati e diventati collaboratori. E ancora, Chiarini è accusato di favoreggiamento, per aver aiutato la latitanza di Voltazza: prima consigliandolo di espatriare all’estero, sapendo (lui e gli altri) di un ordine di cattura nei suoi confronti, poi durante il periodo di latitanza, prima in Croazia e poi in Bosnia, si recavano più volte a trovarlo per informarlo della evoluzione dell’inchiesta sulla Impresa Mantovani, gli prestavano aiuti finanziari e assicuravano sostegno presso i suoi familiari in Italia. Per Chiarini tutto questo vale l’arresto in carcere, dove si trova in attesa dell’interrogatorio dei giudici.