Settanta anni fa il bombardamento che distrusse l’arte
Il 5 giugno 1944 inflitti gravissimi danni al patrimonio Un’opera su tutte la “Deposizione di Cristo” del Bononi
MICAELA TORBOLI. Settanta anni esatti. Tanto tempo è passato dal 5 giugno 1944, quando, all'ora di pranzo, l'ennesimo bombardamento anglo-americano della guerra (il nono dappoi che l'anno precedente erano iniziate le incursioni) fece a Ferrara una ventina di vittime, antipasto amaro del terribile spezzonamento del 10 giugno, quando si ebbero ben 191 morti ed innumerevoli feriti. Quel 5 giugno però è anche mestamente da ricordare per i danni gravissimi inflitti al patrimonio artistico della città. Si può scegliere, per non dimenticare, un'opera-simbolo oltraggiata in quel giorno, che rappresenterà, con il suo sopravvivere malgrado tutto, le altre, perdute o recuperate: la Deposizione di Cristo di Carlo Bononi. Una tela dalla storia tormentata, importante soprattutto per il fondamentale ruolo che ebbe per secoli nel far conoscere a Ferrara un artista ineguagliabile, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. Infatti la Deposizione è una copia dell'omonimo capolavoro caravaggesco esposto alla Pinacoteca Vaticana dopo la restituzione dalle rapine napoleoniche, anche se il termine "copia" appare riduttivo, così come risulta inadatto ammirando la splendida versione ridotta che ne diede Rubens (oggi alla National Gallery of Canada di Ottawa, 1612-1614, cm.88x66,5, mentre l'originale misura cm.300x203), che parte da Caravaggio per diventare senz'altro qualcosa di diverso e, appunto, rubensiano. L'originale venne dipinto da Caravaggio per la cappella della Pietà di Santa Maria Nuova alla Vallicella ovvero "Chiesa nova" di Roma, assegnata dagli Oratoriani di San Filippo Neri alla famiglia parmense Vittrice. Pietro Vittrice, morto nel 1600, era stato maggiordomo, e poi guardarobiere di papa Gregorio XIII. Il nipote ed erede di Pietro Vittrice, Girolamo, commissionò al pittore lombardo la Deposizione per onorare il congiunto, e la tela fu lavorata tra gennaio 1602 e settembre 1604. Il quadro fu ammirato da tutti senza riserve, caso raro nella carriera del pittore lombardo, spesso criticato per il suo realismo spietato. La sua mano ferma il momento in cui Cristo, deposto dalla Croce, viene adagiato sulla Pietra dell'Unzione, per essere cosparso di balsami ed olio prima della sepoltura. La reliquia esiste ancora presso la Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme. E' una lastra di pietra rossa rettangolare lunga cm. 270x130, che si dice abbia quel colore avendo assorbito il sangue di Gesù (si legga M.A. Sickel, The Stone of Unction in Caravaggio's Painting for the Chiesa Nuova, "The Art Bulletin" 40,n.3, sett.1958, pp.223-238). La spettacolarità drammatica del gruppo di figure ed il taglio nuovo dell'immagine non mettono in secondo piano le tante pieghe simboliche e i riferimenti colti presenti nell'opera: ad esempio la ricerca trionfale di un nuovo assalto alle magie della prospettiva dopo che un altro maestro amante delle sperimentazioni, Andrea Mantegna, aveva scelto per il suo mirabolante Cristo morto (1485, Milano, Pinacoteca di Brera) la stessa ambientazione sulla Pietra ma nel momento successivo e con una visuale altrettanto virtuosistica. È noto che il ferrarese Carlo Bononi fece un viaggio d'istruzione a Roma tra 1605 e 1611, mentre secondo Massimo Pirondini, sulla base di valutazioni non suffragate da documenti, il tour risalirebbe al 1617-18. Magari andò due volte, nei periodi citati. Bononi, non più giovanissimo (era nato nel 1569) e già noto e formato, ebbe l'umiltà di copiare la Deposizione, cercando di fondere la sua arte con le novità caravaggesche. E con una meditazione su quanto sentiva di nostrano, così Vittorio Sgarbi sull'opera romana: «La mirabile apertura a ventaglio, dalla soglia del sepolcro sfiorata dalla mano del Cristo alla Cleofe con le braccia levate fino al gomito premuto contro il riguardante, denuncia l'impianto teatrale, l'espressività recitata, in una personalissima reinterpretazione dei Compianti di Cristo in terracotta policroma, disseminati in area padana». (Caravaggio, Tekne-Skira, Ginevra-Milano, 2005, pp.124-5) quindi, ad esempio, ricordando a Carlo i Pianzun di Guido Mazzoni già nella chiesa di Santa Maria della Rosa e poi al Gesù. Il Brisighella (sec. XVIII) sostiene che Bononi dipinse la tela per ornare la cappella Rosselli in Santo Spirito, e lì di certo rimase per secoli, fino a quando intorno al 1885 Giovanni Grosoli Pironi, ricco filantropo, uomo politico in auge nel mondo cattolico ma poco addentro alle meraviglie dell'arte, ottenne che la cappella fosse (mal)rimaneggiata con dedicazione alla Madonna di Pompei. Fece disgraziatamente togliere il quadro del Bononi: scacciata dalla sua sede originale, la Deposizione venne accolta nel 1890 presso la nascente Pinacoteca di Palazzo dei Diamanti. Purtroppo la tela si trovava proprio nell'ala dell'edificio sulla quale caddero le bombe del 5 giugno 1944, e rimase dimezzata e corrosa dalle fiamme. Finì nei depositi della Pinacoteca. Ma non c'è pace per la nostra Deposizione. Terremo conto, senza accettarlo, del parere di Massimo Ferretti (in "Prospettiva" 57-60, 1989-1990) che sostiene senza motivazioni solide che la Deposizione non è di Bononi: di chi altro possa essere, non dice, ma alla sua noticina di poche righe dove si liquida Bononi pare nessuno abbia obiettato, neppure Maria Angela Novelli (v. Le “Virtù Cardinali” di Carlo Bononi e qualche considerazione sulla cronologia, in Arte Collezionismo Conservazione. Scritti in onore di Marco Chiarini, Firenze-Milano, Giunti-Ente Carifi, 2004, pp.265-271), che cento volte aveva dato a Bononi la tela. Smentire in assenza di prove decine di esperti attivi negli ultimi quattro secoli, tutti quanti facilitati nell'attribuzione concorde grazie anche alle osservazioni dirette delle allora perfette condizioni del dipinto di Bononi, per giudicare senza approfondimenti un quadro mutilato espungendolo dal catalogo del pittore, è operazione non condivisibile. Resterà dunque più plausibilmente al nostro amato Bononi la paternità della tela e il merito di aver portato il respiro vitale di Caravaggio ai ferraresi. Sarebbe davvero buona cosa che quel malconcio lacerto non se ne stesse chiuso in un deposito, ma fosse esposto con tutti gli onori, senza alcun restauro, a perenne memoria della inciviltà della guerra, nemica giurata dell'arte e della cultura.
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