Con Minarelli si fondono poesia visuale e pittura
L’artista centese in oltre trent’anni di carriera ha esplorato mondi e viaggiato «La prima performance fu nel ’78: mi diedero del fascista perché non capivano»
di ANDREA SAMARITANI
U. n angelo con la freccia puntata verso l’alto mi indica la via. Salgo le scale illuminate dalla luce viola intermittente al neon, dell’angelo stilizzato preso a prestito da un quadro del Guercino. La luminosa opera è stata realizzata nel 1991, in occasione del quarto centenario della nascita del pittore di Cento, da Enzo Minarelli, poeta visuale, che incontro nella sua soffitta, sotto il cielo di Cento, in un grande e spazioso studio che da trent’anni custodisce la sua arte. Minarelli guarda il mondo da una soffitta senza finestre. Lo pensa, lo immagina, e poi ci ritorna con i suoi versi, scritti e urlati. Parole che non sono mai recitate, semmai sussurrate, distorte fino a che è possibile. Negli anni ’70 Enzo ha deciso che quella sarebbe stata la sua strada. I suoi vicini di casa non sanno che tutti i giorni quella soffitta si trasforma in una astronave che vola sul mondo, ignorando cosa succede laggiù in strada, nella vita quotidiana di una città di provincia. Delle 300 performance artistiche di Minarelli, più di 200 sono state infatti realizzate in tutti i continenti del mondo, invitato dalle più prestigiose università internazionali. È di casa in Brasile, in Messico, in California, a New York, a Tokyo ed in Spagna.
«La mia prima performance è del settembre ’78, realizzata nel palazzo del Vescovo di Codigoro - racconta Enzo -, l’avevo chiamata “Fra me e il video, parole in possesso mio e del video”, quindici minuti esilaranti per me. Ma non per tutti. Ero entrato in scena fumando, scalzo, avevo fogli sparsi per terra. Uno del pubblico alla fine mi disse che ero un fascista perché non si capiva niente di quello che avevo proposto».
La seconda performance risale all’81 alla sala polivalente di Ferrara, si chiamava “Plusplusplus”. Minarelli iniziava lo spettacolo da una cabina telefonica in piazza Ariostea, telefonando in viva voce con il pubblico in sala, poi arrivava trafelato in bicicletta. Quaranta minuti filati di sperimentazione con il corpo, la parola e l’immagine: «Erano i mitici anni del Centro Videoarte di Ferrara, dove è nata la videoarte in Italia - continua -, fondata da Lola Bonora nel ’73, insieme a Carlo Ansaloni e Giovanni Grandi. Io ero il poeta del gruppo, a fianco di Maurizio Bonora, Maurizio Camerani, Giorgio Cattani e Fabrizio Plessi. Gli studi di montaggio del centro erano ospitati all’interno di Palazzo dei Diamanti, in alcune sale oggi destinate a spazio espositivo, mentre le performance si tenevano alla sala polivalente in parco Massari. Sono entrato nel gruppo per merito della mostra “Oggetti inchiodati”, avevo 29 anni, la parola Poema era proposta con varie grafie, caratteri e collage. L’allestimento l’avevo realizzato con Franco Farina, che in camice bianco mi aveva aiutato a montare la mostra. Ero meravigliato ed emozionato, di solito Farina aveva il codazzo, aveva già proposto mostre con artisti internazionali e il fatto che dedicasse il suo tempo a me, m’inorgoglì non poco!».
L’altro palcoscenico ferrarese a cui è legato Minarelli è la Rocca Possente di Stellata, dove negli anni ’80 ha organizzato varie rassegne di Polipoesia. “Visioni, violazioni, vivisezioni” e “Luxson 1 e 2” questi i titoli dei simposi in terra bondenese: «Mi ricordo del compianto Adriano Spatola, nome importante della poesia in Italia, citato in due canzoni di Francesco Guccini (Baudelaire e Scirocco), è arrivato in golena che non aveva ancora deciso come andare in scena, l’ho visto allontanarsi nel bosco, è tornato contento con una frasca in mano, che poi ha agitato nella luce della sua performance», ricorda orgoglioso Enzo.
«Negli anni ho sentito anche il bisogno di imbrattarmi con i pennelli e i colori - continua -, così ho dato vita alle “fonografie”, dipinti nel formato 70%, per rendere visibile la sonorità della parola. Le parole vanno sul pentagramma musicale. Anziché le note disegno delle situazioni grafiche sempre diverse e legate a un tema o una suggestione. Sono stato ispirato dai codici miniati antichi. Le mie “fonografie” vogliono essere un codice miniato moderno. In questo percorso di ricerca sulla parola sono arrivato alla cabala. Ho studiato le carte di un rabbino del ’200, Abraham Abulafia, che sono diventate fonte d’ispirazione per una performance, una preghiera fatta di continue permutazioni, sicuramente un grande omaggio alla cultura ebraica da parte mia».
Minarelli mi invita ad avvicinarmi a un ripiano alto dove è posizionato un ingombrante libro dalle dimensioni enormi: «È il mio “Nembrot”, un grande libro&oggetto di 55 tavole fonografiche realizzate tra l’83 e il 2008. Ho utilizzato varie tecniche: collage, scrittura, prove di stampa, plastica, pellicole, fotografie, vari oggetti cartacei e non. Nembrot secondo Dante è considerato il maggior responsabile della costruzione della Torre di Babele, da cui derivò la confusione dei linguaggi. Il mio Nembrot, tuttavia, linguisticamente parlando, opera attraverso un italiano qui dato in esplosione post-babelica, anche se il vero Nembrot di queste tavole fonografiche è di marca tutta visuale».
Saluto Minarelli mentre chiude con fatica il librone summa della sua ricerca artistica, scendo le scale formulando una mia opinione assolutamente personale, che tradisce come ancora non sappia qual è la disciplina dominante nell’arte o nella poesia di Minarelli. Ai margini della poesia, ai margini della pittura, ai margini della musica, là c’è la poesia visuale, che non è solo poesia né solo visualità, è l’uno e l’altro insieme o anche qualcos’altro...
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