Il panino, da piatto di strada a piatto da chef
In giro per il mondo ormai viene presentato in diverse versioni: l’Italia brilla per l’utilizzo di prodotti sani e senza grassi
Con il sopraggiungere della bella stagione, anche la nostra presenza si adatta, è fatale. Si fa più rarefatta. In una parola, scanzonate. E allora è proprio passeggiando per le strade d’Europa che il florilegio dell’estate dà la stura a una delle più vecchie tradizioni alimentari del nostro continente, ovverosia il ‘cibo da strada’. Come patrimonio mondiale dell’alimentazione, noi italici non potremmo che essere, a riguardo, particolarmente au fait. C’è da dire che all’italiano piace essere esteta anche in questo campo. Di conseguenza, niente schifezze terrificanti a base di grassi idrogenati e/o animali che imperano soprattutto in Europa Centrale e Orientale, anche se ricordiamo con grande nostalgia, prima della terrificante globalizzazione a cui è andato incontro il nostro continente sia i panini imbottiti alle verdure che i cetrioli in salamoia, tra Praga e Mosca; niente tacos, dunque. Niente cibi veloci, schifezze terrificanti che imperano nei luoghi multiculturali come potrebbe essere Bruxelles. Niente bistrò puritani, quindi niente escargots o quello-che-cavolo mangiano in Francia. Ma ricordiamo con grande rimpianto, anche in questo caso, le lumachine di mare con la cerveja assaporate in strada a Lisbona. Piuttosto una cucina più mediterranea, a base di farinati e carne, che ricorda pite e suvlaki greci, o per opposizione anche i temibili kebab. Storicamente parlando, pare che l’origine sia, come tante delle questioni che riguardano l’italianità, proprio la Capitale. A Roma infatti sembra che abbia cominciato a diffondersi l’usanza di consumare il pane con ‘qualcos’altro’ in mezzo. Ma la storia del ‘panino‘ passa anche attraverso il genio rinascimentale di Leonardo Da Vinci, grande appassionato di arti culinarie. Tanto da dar vita nel “Codex Romanoff” (peraltro ancora di dubbia attribuzione) a bozzetti sugli strumenti da cucina. Fatto sta che in questo volume, prodotto ‘diverso’ e invero spassoso del genio toscano, trova posto anche un antesignano di quello che, alcuni secoli più tardi, diventerà il tramezzino: «Pensavo di prendere una fetta di pane e metterla fra due pezzi di carne; ma come posso chiamare questo piatto?», si diceva il maestro.
Anche se la codifica del cibo ‘veloce’ arriva, classicamente, dal mondo anglofono. Lord John Montagu, conte di Sandwich, fu infatti giocatore di carte incallito, talmente preso dal suo vizio da non capacitarsi di abbandonare il tavolo verde neppure per andare a pranzo. Per ovviare ai morsi della fame si fece quindi venire un’idea geniale: l’arrosto di carne, che costituiva la sua cena quotidiana, gli verrà servito non più su un ingombrante piatto da portata, bensì tra due fette di pane imburrato.
Da qui il cibo è diventato, per molti di noi, oltre che una moda, un’esigenza, anche se nella nostra Penisola non poteva che essere interpretato in chiave varietale e insieme culturale. Nell’Italia degli anni ’60, ad esempio, il panino diventa l’emblema del pranzo al sacco, farcito magari di cotoletta o frittata, istantanea gastronomica di una nazione in profonda trasformazione. Ma è solo recentemente che lo ‘street food’ diventa espressione locale. Il panino co’lampredotto di Firenze, ad esempio, che rievoca la vecchia tradizione mercantile di riutilizzo delle interiora meno nobili del bovino, ma ancora il pane c’a meusa della Palermo popolare, una specie di bomba di gusto. Ma è da noi Emiliano-Romagnoli, senza falsi campanilismi, che la tavolozza diventa ingestibile: gnocco fritto tra Modena e Reggio Emilia, crescentina (o rosetta) a Bologna, torta fritta nel Parmense e pinzino a Ferrara, per declinarsi nella versione dialettale chisulen in quel di Piacenza. Per poi passare alla mai abbastanza celebrata piadina in Romagna, compagna di tante nottate indimenticabili e protagonista anche di luoghi di culto gastronomico, come la sorella gemella, la ‘crescia’ urbinate. Ma non è solo una questione varietale, ora che ci pensiamo bene. Dentro i panini, a pensarci bene, ci siamo tutti noi. Contrasti e magnificenza inclusi.
Riccardo Corazza
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