La Nuova Ferrara

Ferrara

Ebrei e fascismo a Ferrara: rapporto a due facce

di LORENZO CATANIA

La borghesia agiata del “Giardino dei Finzi Contini” ancora non si oppone alle leggi razziali in arrivo

24 giugno 2014
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LORENZO CATANIA. All’interno del Romanzo di Ferrara, il Libro terzo costituito dal Giardino dei Finzi Contini (1962) è un’altra storia ferrarese in cui viene rappresentato il secondo momento della “trilogia dell’io” che iniziata con Gli occhiali d’oro (’58) si conclude col romanzo Dietro la porta (’64). Qui Giorgio Bassani abbandona la forma del racconto, sia pure lungo, e costruisce un romanzo vero e proprio. La tematica che sta più a cuore allo scrittore, quasi un’ossessione che lo spinge a muoversi sempre all’interno di un microcosmo ben conosciuto e che svela l’intenzione di lavorare ad infinitum “sulla medesima tela ferrarese”, è sottoposta ad un visibile approfondimento. Bassani resta perciò “dentro le mura” della sua città, in un periodo storico ben noto e circoscritto: quello che racconta l’atteggiamento degli ebrei ferraresi durante “gli anni folli ma a loro modo generosi del primo fascismo emiliano”, e poi dopo la promulgazione delle leggi razziali, mentre si andava approssimando la drole de guerre.

La condizione di ebreo che nelle opere precedenti era sentita dall’autore come elemento di esclusione e quindi di sofferenza, nel Giardino dei Finzi Contini diviene paradossalmente fonte di segreta soddisfazione. Non a caso, durante la trasmissione televisiva “Terza B: facciamo l’appello” dell’8 settembre ’71, Bassani, tra lo stupore generale, definì il periodo delle leggi razziali “eccitante”. Dichiarazione che coincide, grosso modo, con quanto lo scrittore ebbe occasione di scrivere alcuni anni prima, rievocando la figura del suo maestro Roberto Longhi e lo stato d’animo proprio di quegli anni ’30-’40: «Non ero tipo da esami di coscienza, allora. Ero un ragazzo dotato di un fisico eccellente e la vita, per me, era tutta da scoprire: qualcosa di aperto, di vasto, di invitante, che mi stava dinanzi; e a cui mi abbandonavo con impeto cieco, senza voglia, mai, di ripiegarmi su me stesso un momento solo. Nel ’41…mi fu consentito di partecipare a una bellissima gita scolastica ad Assisi, di tre giorni. Durante tutto il viaggio avevo flirtato con una ragazza Nello scompartimento di terza classe che ci riportava a tarda notte a Bologna, Longhi osservava me e la ragazza, seduti di fronte a lui, e sorrideva sardonico nell'ombra azzurra della lampada schermata. Dunque mi interessava la politica, eh? Benissimo: anche questo era comprensibile, anche questo era umano: come tutto il resto. E non avessi fretta comunque, non fossi impaziente. Niente rimorsi, o rimpianti, o paure, da parte mia. Ero un bel confusionario, niente da dire, però, presto o tardi, politica o no, ragazze o no, Storia dell’arte o no, anch’io avrei trovato la mia strada».

Lungi dal cimentarsi in affermazioni estemporanee o sprovvedute, cinicamente provocatorie, Bassani vuole sottolineare con senso autocritico un tipo di condizione giovanile che possedeva borghesemente la vita, fatta di studi, primi amori, svaghi mondani, oltre a un accentuato individualismo e un’aristocraticità comuni a una generazione di giovani intellettuali, il cui ottimismo esistenziale traeva in parte alimento dalle concezioni storiografiche di Benedetto Croce, le quali insegnavano a vedere nella borghesia una classe sociale politicamente e storicamente sana e insostituibile, capace ancora di gestire il processo storico e quindi coincidente tout court, nella sua essenza elitaria, con l’intelligenza della nazione, se è vero che sono le idee e gli uomini di cultura a caratterizzare nella sostanza il movimento della storia. Lo stesso gioco del tennis rappresenta emblematicamente l’ideologia elitaria dei personaggi del romanzo, che lo pratica in un campo improvvisato; serve a far risaltare ancor più lo spiccato senso delle loro persone, a renderli diversi e non omologabili in un’epoca che si trasforma rapidamente e confusamente in società di massa. Invece di interpretare la Seconda Guerra Mondiale e il genocidio hitleriano in una luce di catastrofe assoluta, il Giardino dei Finzi-Contini rappresenta una borghesia agiata, per niente a contatto con le altre classi sociali. Là dove queste compaiono, nelle figure del personale domestico di casa Finzi Contini, è facile ironizzare, riprendendo moduli fissi che, per rimanere nel solco della nostra tradizione letteraria, vanno da Fogazzaro a Montale. A Ferrara, dov’è ambientato il romanzo, le impreviste leggi razziali non fanno precipitare, almeno in un primo momento, l’opposizione degli ebrei al regime. Per la gioventù intellettuale ed ebraica di quella città, anzi, queste costituiscono il motivo per evadere da una realtà sentita come grigia e oppressiva. Cosicché invece di generare un’opposizione lucida e politicamente consapevole verso il fascismo, le leggi razziali creano la premessa per “inventare” un ghetto, gestito con eleganza dai Finzi Contini e in particolare dai più giovani componenti della famiglia, Alberto e Micòl. Ghetto in cui ha modo di esprimersi una resistenza al regime velleitaria, scandalistica e astrattamente intellettuale. E questo perché l’appello di Benedetto Croce alla “religione della libertà” si traduceva in pratica a resistere passivamente al fascismo, ma non a combattere o a spiegare attraverso analisi politico-economica un fenomeno che esulava dai semplici confini nazionali. Sotto questo punto di vista, le vicende al centro del Giardino dei Finzi Contini costituiscono per il giovane io narrante ebreo che prima del ’38 ha creduto e dato credito al fascismo, una tappa significativa del processo individuale di presa di coscienza antifascista che gli insegnerà a lottare concretamente per quella libertà e quella giustizia che molti italiani avevano calpestato con la loro indifferenza.

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