Combattendo nelle trincee con i diari di nonni e bisnonni
Speciale on-line del nostro giornale in collaborazione con l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano
di PIER VITTORIO BUFFA
Tornare con loro nelle doline del Carso, sulle cime dolomitiche, nel fango delle trincee. Ascoltare i loro racconti fatti di poche parole e di tantissime emozioni. Lasciar scorrere i giorni al loro ritmo. Abituarsi a sentir parlare di morte, cadaveri, amputazioni, gas che uccide. Viaggiare sulla mappa dei campi di battaglia scoprendone o riscoprendone la toponomastica. E non dimenticare.
Per tutto questo è nato “La Grande Guerra, i diari raccontano”, lo speciale del nostro giornale realizzato in occasione del centenario della guerra mondiale 1914-1918. Uno speciale on-line frutto della collaborazione tra il gruppo editoriale L’Espresso e l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e raggiungibile dalla homepage del sito del nostro giornale. Lì, nelle stanze dell’archivio fondato trent’anni fa da Saverio Tutino, sono conservati quasi ottomila tra diari, memorie ed epistolari di altrettanti italiani e italiane. Sono straordinari spaccati di vita privata e pubblica, microstorie con le quali ripercorrere la vita del nostro Paese. In quella montagna di taccuini, pagine di quaderno, lettere, fotografie, ci sono alcune centinaia di “fondi” che parlano della Grande Guerra. Sono soprattutto racconti di soldati al fronte, ma anche testimonianze di crocerossine o donne sfollate con la loro famiglia.
È dall’analisi di questi diari che è nato lo speciale, uno strumento per certi versi unico. Per la prima volta documenti di questo valore vengono messi a disposizione di tutti in versione digitale. Sono un migliaio i brani estratti dai diari. Selezionati in base a criteri giornalistici e di interesse generale e collocati nel modo più puntuale possibile sul territorio. Ogni estratto ha le sue coordinate geografiche che popolano una grande mappa interattiva. È catalogato sulla base dei temi che affronta (il combattimento, la fame, la morte, il freddo) e del grande evento bellico al quale eventualmente si riferisce (disfatta di Caporetto, presa di Gorizia, battaglia di Vittorio Veneto). E, naturalmente, è collegato al proprio autore le cui vicende belliche vengono brevemente descritte. Il tutto con un apparato documentario essenziale e numerosi rinvii a schede e approfondimenti.
Immergendosi nello speciale e lasciandosi guidare dalle proprie sensibilità e curiosità ci si avvicina in modo straordinario ai nostri nonni e bisnonni. In alcuni momenti sembra quasi di stare al loro fianco.
Eccoci su una piazzetta di Noventa Padovana mentre un generale ordina la fucilazione, subito eseguita, di un soldato colpevole, mentre lo salutava, di non essersi tolto la pipa di bocca. Oppure eccoci mentre chiudiamo nella tasca della giubba una lettera ai genitori che un compagno ci ha dato prima di andare in azione, perché la si consegni alla famiglia se lui dovesse morire. Vediamo il capitano assassino. Uccide due suoi soldati che si sono nascosti invece che combattere e viene a suo volta freddato da una fucilata austriaca.
A Caporetto stiamo per andare a letto ma ci dicono di dormire con le scarpe perché durante la notte. , quando inizierà l’attacco nemico, bisognerà subito scappare.
Sul Piave siamo accanto ai ragazzi di appena diciotto anni che muoiono a centinaia. Del gas vediamo gli effetti riportando indietro i cadaveri dei nostri compagni asfissiati e poi finiti a colpi di mazza. E poi siamo a Gorizia liberata, semidistrutta e disseminata di cadaveri. In una delle centinaia terre di nessuno, nascosti dietro al cadavere di un compagno per aspettare il buio e cercare di tornare indietro. Una notte poi, dopo un attacco, abbiamo dormito come sassi e solo la mattina ci siamo accorti che sotto di noi non c’era un materasso, ma il corpo di un compagno ucciso.
Gli effetti di un simile viaggio nel tempo possono essere molteplici. L’unico che andrebbe ricacciato indietro è quello di passare oltre catalogando tutto questo come roba vecchia di un secolo, sulla quale non vale la pena soffermarsi troppo. Che sia roba vecchia non c’è dubbio, ma passare oltre sarebbe un errore per almeno due buone ragioni.
La prima è per il rispetto che si deve a una generazione che, suo malgrado, è stata decimata nel senso più stretto del termine (morì più del 10 per cento degli uomini mobilitati). Le tremende sofferenze di quella generazione, che la lettura dei diari restituisce con straordinaria concretezza, sono state schiacciate da tutto quello che è venuto dopo. Chi da ragazzo era stato nelle trincee dell’Isonzo a poco più di cinquant’anni è il reduce dimenticato di una guerra d’altri tempi di cui, chi è nato nel secondo dopoguerra, si è occupato poco o niente. La seconda è perché serbare memoria di una guerra è una delle cose più sane che un popolo possa fare. Non per celebrarne gli eroi o mandare a memoria battaglie e spostamenti di truppe. Ma per imprimersi bene nel Dna che cosa vuol dire “andare in guerra”. Per far diventare tutt’uno con il nostro comune sentire il concetto che la guerra è la cosa più terribile che l’uomo abbia inventato.
Ecco, se “I diari raccontano” darà a tutto questo un aiuto anche infinitesimale uno degli scopi principali per il quale è stato costruito sarà stato raggiunto.
@PierVittBuffa
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