Offese del dopo Aldrovandi, condanna per diffamazione
Un uomo scrisse su Facebook alla madre: «Hai allevato un cucciolo di maiale». La frase postata dopo le pene in Cassazione per i 4 agenti che uccisero Federico
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FERRARA. E’ uno degli ultimi processi, una delle tante code giudiziarie del caso Aldrovandi. E si è chiuso ieri davanti al tribunale di Ravenna, dove Sergio Bandoli, detto “L’Alpino”, 54 anni da Cotignola di Ravenna è stato condannato per diffamazione ad un pena di sei mesi per le offese diffamanti che nel giugno 2012 mitragliò contro Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, sulla sua tastiera in un post su Facebook nel profilo «Prima Difesa Due», che raggruppava personale delle forze dell’ordine e chi voleva socializzare con loro.
Bandoli era uno di questi che arrivò ad affermare contro la Moretti: «Se avesse saputo fare la “madre” (virgolette originali, ndr) non avrebbe allevato un cucciolo di maiale».
Da qui la denuncia, le indagini, i processi che non hanno visto Patrizia Moretti parte civile (ma seguì il processo come parte offesa) e si era dichiarata anche disposta a ritirare la querela se l’imputato avesse presentato una lettera di scuse e un’offerta in favore di un ente benefico nel nome di Federico. Bandoli, l’Alpino come si faceva chiamare dal gruppo (con tanto di foto con cappello), invece, ha continuato a sostenere di non aver mai scritto quella frase sul profilo Facebook, addirittura sostenendo in aula, proponendo una analisi linguistica del post incriminato che «in campagna da noi – ha spiegato al giudice Federica Lipovscek e al pm Lucrezia Ciriello – parlare di cucciolo non è usuale. Non fa parte del nostro linguaggio, di solito parliamo di pulcini, maialini, passerottini per indicare i piccoli animali, non di cuccioli». Come dire, non lo uso, non posso averlo scritto. Tesi difensiva assolutamente non accolta. Perchè Bandoli sosteneva in realtà di essere estraneo ad ogni accusa, di essere stato vittima di un’intrusione esterna da parte di un hacker.
Ma non venne mai dimostrato, perchè il processo ha messo in luce un “buco” che compare sempre nelle denunce per diffamazione che vedono Facebook come media di propagazione: l’impossibilità di accertare l’identità di chi scrive, lo strumento usato (computer o tablet o altro). Ma solo perchè le indagini ordinate dalla procura di Ferrara, con una rogatoria internazionale tramite la polizia postale dell'Emilia Romagna, alla Facebook Inc. Security department - 151 University Avenue - Palo Alto California, Usa, non hanno mai dato risposta. Resta il contesto di quella frase: scritta da Bandoli nei giorni dopo la sentenza definitiva di Cassazione per i 4 agenti condannati per la morte di Federico.
Su quel profilo Facebook si dicevano tutti indignati (per la sentenza “in nome del popolo italiano”, anche uno dei 4 agenti, sui quali intervenne il ministro degli interni di allora, Annamaria Cancellieri) contro la madre di Federico e la sua volontà di andare fino in fondo. (d.p.)