Lo scrittore Marani: La Germania post muro sia traino economico e ideale
A trent'anni dalla caduta del muro, i ricordi e le riflessioni dei ferraresi
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Le immagini del muro di Berlino che crollava sotto le picconate della folla arrivarono in una Bruxelles cupa e incredula. La città, sprofondata nell’eterna crisi del Belgio pre-federale, quando i fiamminghi la lasciavano marcire tenendone in ostaggio il bilancio, era nera di fuliggine e di incuria. La Comunità europea, stordita da anni di stasi e di braccio di ferro con la Thatcher, sotto la spinta di Jacques Delors cominciava appena a ritrovare fiducia. Molti di noi in quei giorni partirono per andare a vedere con i loro occhi cosa succedeva a Berlino. In treno, perché i low-cost ancora non esistevano. Ci sarebbero voluti giorni per sentire le loro testimonianze dal vivo. Intanto ci si arrangiava con la televisione, coi giornali, con le telefonate dei colleghi tedeschi. Loro, di solito restii a parlare di Germanie, erano in fibrillazione.
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Ma c’era chi da quel crollo non vedeva venire nulla di buono. Un’ombra di Reich, il trionfo di un Kohl arrogante, il fallimento della Rdt, la conferma che del comunismo, perfino di quello tedesco, non si poteva salvare niente. Comunque fosse, quella breccia che si apriva ad Est nessuno l’aveva prevista. L’Europa che si stava allargando a Nord ora era costretta a ripensarsi. Premeva alle nostre porte uno sconfinato oriente che nessuno aveva davvero voglia di conquistare. Ma soprattutto, la Germania si ricomponeva. E per prima aveva paura dell’altra sua metà. Erano parole dello scrittore francese François Mauriac, braccio destro di De Gaulle ma in quei giorni molti se ne impossessarono: «La Germania mi piace così tanto che ne voglio due». Ci accorgemmo che invece erano molte di più.
La cosa per me più clamorosa, quel che del crollo del muro oggi mi resta più fortemente, fu proprio questa: la scoperta della Germania. Un paese molto più complesso di quanto avevo sempre pensato, dalla grande capacità di adattamento, attraversato da differenze profonde almeno quanto quelle che dividono noi italiani, con in più due diverse religioni e le loro sfumature. Un paese dai mille campanili e da un unico, insopprimibile senso di colpa. Un gigante che si vuole nano per paura di ricadere in antiche smanie di potenza.
La Germania oggi si è ricomposta, malgrado sussista ancora un divario fra est e ovest. A Berlino il muro lo vendono a pezzi nei negozi di souvenir, e non dev’essere tutta roba vera. La forza economica tedesca si è comperata l’est europeo e le rimesse degli emigrati tengono in piedi più d’uno di questi nuovi Stati membri dove il tedesco è lingua franca. Ma il pensiero trent’anni dopo resta questo: per crescere, per diventare un vero progetto politico, l’Europa ha bisogno di un traino non solo economico ma anche ideale. Di una narrazione che susciti entusiasmo, passione. Questo slancio non può venire dai piccoli paesi. Diceva il Nobel per la letteratura Ivo Andric: «Ci sono paesi di piccolo taglio come ci sono banconote di piccolo taglio». Senza nulla togliere al contributo che ogni paese porta alla ricchezza culturale dell’Europa, ai grandi spettano ruolo e responsabilità maggiori.
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Della Francia sempre prigioniera della sua pretesa di “grandeur” nessuno si fida. Il Regno Unito era fuorigioco anche prima della Brexit. L’Italia è incapace di avere una visione di sé, figuriamoci una europea. Tocca dunque alla Germania abbandonare la paura del passato e accettare il posto che occupa, fungendo da catalizzatore degli altri paesi nel pensare un’Europa nuova, sicura di sé e dei suoi valori, davvero costruzione politica rivoluzionaria, davvero fatta dai popoli e non dai governi.