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Il processo

Il medico del carcere: «Choccata per aver visto il detenuto»

D.P.
Il medico del carcere: «Choccata per aver visto il detenuto»

Davanti al tribunale, il caso delle presunte torture in cella. Ma emerge un clamoroso "buco": un agente già condannato per aver picchiato il detenuto,  non è mai stato nella cella dove è avvenuto il fatto, come hanno detto i testimoni in aula

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FERRARA . «Ero choccata per le condizioni del detenuto»: la mattina del 30 settembre 2019 si sentì cosi, dopo aver visto il detenuto, Antonio Colopi, con sangue rappreso e lesioni varie in faccia e in testa, la dottoressa di turno del carcere, Giada Sibahj. Sotto choc, per non aver mai visto un detenuto in quelle condizioni, risponde alle domande delle difese. Ma se era così choccata, non era necessario intervenire dal punto di vista medico? Perché dalle 9 del mattino, quando vede Colopi, solo alle 10. 15 la Sibahj avvisò la comandante Gadaleta, non portandolo in infermeria o chiamando il 118 e alle 10. 45 lo medicò per le lesioni.

 

Spiega al tribunale, la Sibahj, che fece passare tutto questo tempo perché “intimorita”, “imbarazzata”, dalla presenza degli agenti, non sapeva cosa fare: «Sono andata in infermeria, mi sono rilassata, ho respirato e fumato una sigaretta», poi alle 10. 15 avvisò. La Sibahj è stato uno dei testimoni chiave, ieri mattina al processo per le presunte torture in carcere, sul detenuto Antonio Colopi. Perché quella mattina fu lei a dire alla comandante Gadaleta: «vada a vedere il detenuto, che è una maschera di sangue» e a mettere in moto il processo. Difficile, difficilissimo perché toccherà al tribunale stabilire se il racconto-denuncia fatato poi da Colopi, di essere stato perquisito, aggredito, denudato, ammanettato, ossia “torturato” sia la verità oppure che “quella maschera di sangue” era dovuta sì all’intervento degli agenti di Polizia accusati, che non lo picchiarono ma si difesero dopo essere stati aggrediti da Colopi (la loro tesi difensiva) .

 

Gli agenti sotto accusa sono Geremia Casullo e Massimo Vertuani, e con loro a processo l’infermiera Eva Tonini, per falsi e favoreggiamento. Perché quella mattina, prima del fatto (alle 8.50) scrisse nel registro infermieristico che vide Colopi sbattere la testa contro il blindo (il portoncino della cella) . Un racconto non verosimile, secondo la Sibahj, «lesioni non compatibili con ciò che ho visto», ha spiegato al tribunale.

 

Che deve gestire il processo tra il nervosismo di tutte le parti, anche dei giudici. Processo, però, anche paradossale, kafkiano. Perché dovrà spiegare come sia stato possibile condannare Pietro Licari, altro agente di Polizia coinvolto (processato a parte in abbreviato, da altri giudici, condanna di 3 anni, confermata in appello) se Licari stesso non entrò mai, quella mattina, nella cella 2 dei “nuovi giunti” dove si trovava Colopi. Condannato, Licari, solo perché Colopi disse di averlo riconosciuto (dalle foto) come una delle persone che entrò nella sua cella e lo picchiò. Licari non c’era, perché altri agenti (sentiti al processo, anche ieri, gli agenti Ferrara e Mininno) hanno riferito al tribunale che erano loro i due entrati in cella. E senza picchiare nessuno. Fatti per cui uno dei difensori (Alberto Bova) ha chiesto la trasmissione degli atti alla procura, e segnalare la “estraneità” di Licari, già condannato, mentre il suo legale Giampaolo Remondi ribadisce il ricorso in Cassazione contro le condanne.



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