Le lettere minatorie e la chat «Non doveva rimanere tra noi?»
Una conversazione tra Arquà e Lodi al centro di un focus investigativo
i Daniele Oppo
Ferrara «Non era una cosa che doveva rimane tra noi». È sgrammaticato e manca il punto interrogativo, ma questo messaggio testuale di Rossella Arquà è stato oggetto di un supplemento d’indagine richiesto dalla Procura di Ferrara alla Digos nell’ambito dell’indagine sulle otto lettere minatorie scritte dalla consigliera leghista contro Nicola Lodi e contro sé stessa. La frase, a leggerla nel contesto, appare in realtà una domanda: non era una cosa che doveva rimanere tra noi? Quel noi è rappresentato dalla stessa Arquà e proprio da Nicola Lodi, il minacciato, suo interlocutore nella chat WhatsApp.
La conversazione verteva sulle lettere minatorie: il 4 giugno del 2021, all’ora di pranzo, la consigliera scrive al vicesindaco perché i carabinieri di Ro le hanno «chiesto x le minacce che sono arrivate». Lodi risponde con due domande: «Cioè? Ma chi li ha mandati?» e lei risponde che non lo sa, che «sono venuti x ordine di Ferrara» e poi chiede: «Ma non era una cosa che doveva rimane tra noi». «Ma che ne so», replica Lodi. Dopo qualche altro scambio la Arquà chiede al vicesindaco di informarsi presso un agente della Digos di quel che sta accadendo.
La stessa Digos non dà una spiegazione di quella frase quantomeno sibillina della Arquà, si limita a riferire che il momento era quello dell’attivazione di una vigilanza generica nei suoi confronti, a seguito delle lettere minatorie indirizzate anche a lei.
La domanda della Procura tra origine da una richiesta avanzata dalla difesa della consigliera - l’avvocato Fabio Anselmo -, che dall’inizio di questa vicenda sostiene che Lodi fosse perfettamente a conoscenza, se non proprio co-artefice, dell’attività di Arquà nella produzione delle lettere, tant’è che - rileva senmpre la difesa - proprio nell’arco di tempo in cui “arrivavano” le missive, tra aprile e maggio del 2021, entrambi erano a conoscenza del fatto che c’erano delle telecamere a sorvegliare la sede della Lega. Telecamere posizionate in automobili parcheggiate, anche queste oggetto di un altro supplemento d’indagine ordinato dalla procura: una Volvo, una Toyota Prius del Comune e una Opel Tigra risultata essere di proprietà del consigliere comunale leghista Fabio Felisatti. È lei stessa a dire a colui che al tempo era il suo mentore politico, il 27 maggio, «speriamo che abbiano visto qualcosa dai video. Dalla telecamere che c’è in macchina. Con la macchina sempre lì davanti alla sede che non abbia registrato qualcosa in mezzo alla pubblicità».
Il 31 “scopre” una nuova lettera minatoria e questa volta, al momento della denuncia in Questura, le vengono prese le impronte digitali. Il 9 giugno dice a Lodi di aver notato un agente della Digos che controllava all’uscita dall’ufficio in Lega, e il giorno successivo “trova” l’ultima lettera anonima: la mette lei stessa e c’è una registrazione video, l’unica tra gli atti di indagine, che la incastra. Solo che, osserva la difesa, lei sembra saperlo di essere ripresa dato che poco più avanti, mentre parla con Stefano Solaroli, fa proprio un cenno verso l’auto con telecamera per indicarla anche a lui. Il resto poi è storia nota, con la denuncia della consigliera per minacce - anche per le lettere con proiettile giunte in Comune, accusa per la quale è arrivata l’archiviazione - e simulazione di reato e lo sdegno del mondo politico, a partire dai suoi ex compagni di partito e di Nicola Lodi.
Benché esecrabile sul piano morale e politico, la vicenda sembra dunque essere ancora aperta sul versante giudiziario, dove la difesa della consigliera punta in tutta evidenza a dimostrare che non vi fu alcuna reale minaccia e ottenere così l’archiviazione anche dalle incolpazioni rimaste, quelle più gravi almeno. l
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