La Nuova Ferrara

Ferrara

Il caso

Ferrara, le baby rapinatrici «devono capire il disvalore di quello che hanno fatto»

Daniele Oppo
Ferrara, le baby rapinatrici «devono capire il disvalore di quello che hanno fatto»

La vicepresidente della Camera minorile di Ferrara: «Comportamento sintomo di disagio»

09 dicembre 2023
3 MINUTI DI LETTURA





Ferrara Le baby rapinatrici che lunedì mattina hanno rapinato due ragazze a Ferrara «devono rendersi conto del disvalore sociale di quello che hanno fatto, non ci si può passare sopra». Ad affermarlo è Barbara Grandi, avvocata e vicepresidente della Camera minorile di Ferrara. «Serviranno misure che le richiamino a una qualche attività che faccia capire loro che hanno sbagliato», spiega ancora Grandi. 


Si tratta di ragazze tutte sotto i 15 anni, la “capetta” è la più piccola, ha 11 anni. La loro escursione nel mondo dell’illegalità che è durata davvero poco. Dalla doppia rapina di lunedì mattina alla loro identificazione è passato pochissimo tempo, quanto è bastato alla polizia per raccogliere qualche informazione, visionare le telecamere della zona stazione, capire che erano salite su un treno in direzione Bologna, da dove provenivano, fermarle e recuperare il maltolto. Il caso è già stato segnalato alla procura minorile di Bologna per le determinazioni del caso, ma gli agenti della questura stanno ancora lavorando per conoscere e mettere insieme tutti i dettagli della vicenda, preoccupante di per sé - due rapine sono sempre due rapine - e straniante perché non capita tutti i giorni che a compiere azioni simili siano ragazze di quell’età. 

Ci si interroga, ovviamente, su come sia potuto accadere. «Bisogna capire se vivono in comunità o sono in famiglia - osserva Grandi -. Mi è capitato, ad esempio, di essere curatrice di ragazze che vivono il disagio di essere frenate da regole spesso religiose e il desiderio di vivere "all’occidentale", cosa che crea una dicotomia in loro. Una ragazza è stata allontanata dalla famiglia, ma in comunità si comporta come una bulletta».


In ogni caso, azioni del genere a quell’età, «sono un sintomo di disagio, non pensano alle conseguenze, non hanno nemmeno un minimo di scaltrezza, come anche in questo caso».

Ed essendo segni di disagio in una fase così delicata della crescita e della maturazione individuale e sociale «non è chiudendole in carcere che si risolve il problema, anzi lo si aggraverebbe ancora di più. Sono cose anche legate all’adolescenza, a una fase in cui magari non si hanno schemi da seguire e limiti da non valicare». Può sembrare scontato, ma leggendo alcuni commenti sui social, esplicitarlo non sembra sbagliato.

Ciò non significa non intervenire: «Nell’ambito del procedimento minorile ci sono misure che si possono adottare - spiega l’avvocata -. Una volta c’era solo il perdono giudiziale, oggi ci sono anche attività di carattere sociale, percorsi psicologici o anche neuropsichiatrici per valutare e capire la situazione. Ma la prima cosa da fare è fare delle verifiche sulle famiglie, capire se c’è attenzione o disinteresse. Purtroppo, spesso il problema è l’assenza di segnali forti dalle famiglie, l’incapacità di educare e anche per questo c’è un grande disagio minorile», conclude Grandi.