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In camice da Comacchio a Boston. Marco e la passione per le piante

Francesco Gazzuola
In camice da Comacchio a Boston. Marco e la passione per le piante

La storia del ricercatore in biologia vegetale presto all’Harvard University

16 febbraio 2024
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Comacchio Non siamo propriamente in laguna, ma questa storia nasce tra le valli di Comacchio e arriva fino a Boston, più precisamente alla Harvard University, passando per Bruxelles. Il protagonista è Marco Zarattini, 39 anni, comacchiese doc, ricercatore in biologia molecolare delle piante pronto a realizzare l’aspirazione di molti: vivere il sogno americano.

Marco, dove inizia la tua storia?

«Alle scuole superiori ho fatto chimica all’Iti di Ferrara, è stato molto divertente. Inizialmente mi ero iscritto ad informatica poi ho scoperto la chimica e me ne sono innamorato. All’università non sapevo bene cosa fare e alla fine ho scelto biotecnologie: qui ho mi sono imbattuto nella biologia molecolare delle piante, che mi ha affascinato molto e ho avuto una buona preparazione.

La biologia è sempre stato il tuo unico interesse?

«Certo che no, ho sempre suonato la batteria quindi il mio sogno da bambino era di diventare un batterista professionista. Avevo una band con i miei amici, i Modotti e insieme abbiamo suonato parecchio in giro per l’Italia. Quando però mi sono reso conto che il percorso sarebbe stato troppo difficile, mi sono orientato al 100% verso la biologia delle piante».

Questo percorso ti ha portato lontano?

«Decisamente. Dopo l’università ho lavorato un paio di anni in un laboratorio molecolare vegetale e poi mi hanno offerto di andare in Ecuador. Con il cuore in gola sono partito e qui ho insegnato due mesi tecniche di biologie molecolari pcr, la stessa tecnica diagnostica che è stata usata durante il Covid. Quindi sono tornato in Italia e ho scritto un progetto di ricerca in maniera indipendente. Sono poi andato a Parigi e Versailles, dove c’è uno dei centri di ricerca per piante più importanti d’Europa. Là ho lavorato un anno e mi era pure stato offerto di fare il dottorato, ma sono tornato in Italia per suonare la batteria. Una volta a Ferrara ho fatto il dottorato nel laboratorio di fisiologia vegetale: è stato allora che è arrivata la chiamata per Bruxelles, un treno che nella vita passa solo una volta sola».

Com’è nata l’opportunità di andare alla Libera università di Bruxelles?

«Partecipai a un congresso in Inghilterra e conobbi delle persone che mi avvisarono del concorso per entrare a Bruxelles. Lo vinsi e dal 2018 sono in Belgio nel laboratorio di genetica molecolare delle piante, poi ho cambiato laboratorio nella stessa università e ho scritto un progetto di ricerca in maniera indipendente grazie a cui ho vinto il concorso per il quale dal primo maggio mi trasferirò all’Harvard University di Boston».

Cosa farai là?

«Semplificando, studierò cosa succede nella cellula e lavoreremo con il dna e sonde nucleari. Negli anni mi sono specializzato nell’immunità delle piante e sarò all’interno del Massachusetts General Hospital dove ci sono hub importanti per lo studio delle piante. Nel dipartimento di genetica e biologia molecolare sarò l’unico italiano e rappresenterò il mio paese».

Cosa significa per te questo trasferimento?

«Quando sono andato a Boston per un colloquio la prof mi ha detto: “Vedi quella scrivania? Sarà la tua quando ti installerai qui ma prima ti devo dire una cosa. Se pensi che la ricerca abbia limiti ti dimostrerò che qui l’unico limite è il pensiero”. Avere la possibilità di lavorare senza ostacoli è ciò che chiunque vorrebbe. Ho avuto la pelle d’oca e una carica bestiale. Adesso non mi spaventa niente e ho la motivazione giusta per affrontare questo percorso».

E a Comacchio torni volentieri?

«Sono molto attaccato a casa e Comacchio crea un vero richiamo. Lo scrittore portoghese Pessoa usa il termine “saudade” per definire proprio questa sensazione di malinconia avvolgente: Comacchio ha questa caratteristica, ti protegge. Tornerò a lavorare in Italia se in futuro ci saranno le giuste condizioni». 

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