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L’intervista

Covid. La delusione di Venturi: «Dovevamo uscirne migliori, è stata una falsa promessa»

Evaristo Sparvieri
Covid. La delusione di Venturi: «Dovevamo uscirne migliori, è stata una falsa promessa»

L’ex assessore dell’Emilia Romagna: «Le mattine ci tremavano le gambe»

19 marzo 2024
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«Avevamo in quel momento l’illusione che quando tutto sarebbe finito ci saremmo ritrovati migliori. L’ho sempre considerata una falsa promessa e, come tanti, ci siamo accorti che in realtà non era così. Siamo tornati “disperati” e “agitati” come prima, il senso di comunità che avevamo messo insieme è progressivamente scomparso». Era un appuntamento diventato per tutti fisso: ogni pomeriggio, intorno alle 17, sui canali social della Regione, l’ex assessore regionale alla Sanità, Sergio Venturi, richiamato in servizio con il ruolo di commissario, informava sull’andamento della pandemia nella nostra regione.

Consigli, rassicurazioni, bollettini e precauzioni, che Venturi, medico ed ex direttore generale del Sant’Orsola di Bologna, dispensava in diretta, raggiungendo punte anche di 250mila visualizzazioni al giorno. Un’esperienza diventata tempo fa un libro, “La goccia del colibrì. Fare la propria parte durante e dopo la pandemia” (Pendragon, 2020), scritto insieme al giornalista di Repubblica, Rosario Di Raimondo.

Dottor Venturi, cosa ricorda di quei terribili giorni?

«Ho un ricordo ancora vivo, di un periodo segnato purtroppo da tante disgrazie. Ma lo ricordo anche come un periodo in cui ci sentivamo tutti più comunità. Ciò che mi dispiace è che le lezioni di tutti i tipi sembra non servano mai, facciamo sempre gli stessi errori, compreso l’aver dimenticato questa prova così forte e tragica. Stiamo vivendo ancora un momento di grande crisi. E io penso che tutte le crisi siano concatenate».

Ovvero?

«La crisi delle nuove malattie è legata anche alle altre, come l’inurbamento e i cambiamenti climatici. Sono crisi concatenate, ma continuiamo a sperare di risolvere una crisi senza intervenire sulle altre. Non vorrei sembrare eccessivamente pessimista, ma penso sia giusto prepararsi ad altre pandemie, speriamo fra 300 anni, ovviamente».

Saremmo pronti oggi ad affrontare emergenze simili?

«Ci sono tante cose che si potrebbero fare, ma non tutte sono state fatte. Non parlo di Emilia-Romagna, ma parlo in generale: unificare i sistemi di reazione alle epidemie, unificare i servizi, i laboratori, la gestione dei letti di rianimazione. Ricorda la pena di dover spostare malati da una città all’altra? Tutto ciò non è avvenuto. Non basta scrivere un piano di reazione ai virus sulla carta, le cose vanno praticate e ci vuole una comunità di professionisti come quella che si era creata allora. Oggi si è molto meno vigili, ma è umano che sia così quando passano i pericoli».

Qual è stata la difficoltà maggiore in quel periodo?

«Sono stati momenti molto molto difficili. E quando ci ripenso, anch’io devo ringraziare tutti coloro che seguivano le nostre dirette. Mi sentivo sollevato dallo stare insieme, dall’avere le loro reazioni».

L’odio social non sembrava ancora esploso.

«All’inizio qualcosa c’era, d’altronde avevo appena finito di fare l’assessore ed evidentemente qualcuno aveva qualcosa da dire. Ma poi è passato assolutamente. Anche qui ci raccontavamo che saremo usciti migliori e avevamo dimenticato un odio sotterraneo che poi è ritornato. La difficoltà principale consisteva nel fatto che nemmeno coloro che dovevano tranquillizzare erano tranquilli. Era difficilissimo tranquillizzare tante persone con tutto ciò che scoprivamo giorno dopo giorno. Avevamo una responsabilità enorme. Le mattine ci tremavano le gambe, ma non potevamo buttarci dalla finestra, dovevamo stare uniti. Ricordo che ci seguivano più di 250mila persone fra social e altri canali informativi. Qualcuno ancora oggi mi incontra e mi dice: “Dov’è che l’ho vista?”. Ci seguivano anche dal Sudamerica e dall’Australia, magari persone che avevano parenti in Emilia-Romagna o legami qui. Era anche un modo per sentirsi più vicini. Più che certezze, in quel periodo avevamo qualcosa che somigliava più alla fede, un sentimento molto religioso che portavamo tutti insieme. La scienza ci diceva che tutte le volte le pandemie sono arrivate e andate via nel giro di poco tempo, penso al colera a Napoli che durò un mese. Rileggevamo anche i classici della letteratura, come la peste di Manzoni, ma una pandemia così potente e disperante non l’avevamo mai conosciuta prima».

Oggi si sente più orgoglioso per il ruolo svolto o più amareggiato per ciò che poi non si è realizzato?

«Sicuramente c’è l’orgoglio di esserne usciti tutti insieme. Sono sicuro che se non ci fosse stata una comunità così forte, ne saremmo usciti più tardi. L’Emilia-Romagna è stata una delle regioni più colpite inizialmente, ma siamo diventati un modello per l’Italia così come l’Italia lo è diventata per il resto del mondo. Abbiamo vissuto tutto prima, così i nostri medici e i nostri scienziati hanno insegnato al mondo cosa fare. L’orgoglio quindi rimane, ma nello stesso tempo mi sarebbe piaciuto che il nostro Paese diventasse anche oggi un esempio, senza dimenticare. È una questione non solo italiana. D’altronde, la prima cosa che dicono i dottori ai malati è cercare di dimenticarsi della malattia. In questi casi, però, non siamo di fronte a episodi individuali, ma in una dimensione collettiva. Per questo è importante considerare anche tutte le altre emergenze. Se ne può uscire sempre solo tutti insieme, riscoprendo una consapevolezza di ciò che conta veramente».  

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