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Ferrara, la “resistenza” dei medici all’invio di migranti nei Cpr

Daniele Oppo
Ferrara, la “resistenza” dei medici all’invio di migranti nei Cpr

Al Sant’Anna primi casi di dichiarazione di non idoneità

01 giugno 2024
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Ferrara Un piccolo ma significativo movimento di resistenza. A metterlo in essere alcuni medici dell’ospedale Sant’Anna di Cona, chiamati ad accertare le condizioni sanitarie degli stranieri diretti a un Centro di permanenza per i rimpatri, i famigerati Cpr di cui tanto si è parlato nei mesi scorsi, quando c’era l’ipotesi - non del tutto tramontata - di crearne uno anche nel territorio di Ferrara. Perché se è vero che non vi sono posizioni ufficiali, gruppi formali e tantomeno linee guida aziendali e tutto è rimesso a "scienza e coscienza" del singolo, è vero anche che quella coscienza sta spingendo alcuni sanitari operanti a Ferrara a un ragionamento che porta a considerare - e dunque a dichiarare tali - sempre inidonei gli stranieri alla permanenza in un Cpr. Finora questa forma di resistenza sembra essere sporadica, pochi granelli di sabbia dentro l’ingranaggio del problematico sistema di detenzione amministrativa, ma la questione potrebbe essere destinata a gonfiarsi. Due casi potrebbero fare da "spia": una non idoneità per un sospetto caso di scabbia di qualche settimana fa, e una più recente non idoneità per una condizione clinica considerata non compatibile con la permanenza in un Centro per rimpatri dove, ormai notoriamente, i problemi sanitari non sono affatto una rarità ma, anzi, potrebbero essere definiti un elemento sistematico del sistema Cpr. Non siamo davanti a una forma di obiezione di coscienza, sarebbe erroneo considerarla tale. Come sarebbe erroneo considerare quel che accade a Ferrara qualcosa di estemporaneo, privo di basi, un’iniziativa di pochi singoli. In verità si tratta delle prime manifestazioni, almeno in questa provincia, di un’onda che sta crescendo, con basi giuridiche, medico-scientifiche, etiche, deontologiche e politiche. Il fondamento lo si trova in un appello pubblicato a febbraio dalla Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (Simm), dalla Rete "Mai più lager - No ai Cpr" e dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi, a Ferrara già conosciuta per le battaglie, vinte, sul regolamento delle case popolari) rivolto al personale sanitario e dove è contenuta la richiesta di «una presa di coscienza sulle condizioni e sui rischi per la salute delle persone migranti sottoposte a detenzione amministrativa nei Cpr». L’appello, pubblicato anche sotto forma di lettera aperta dalla prestigiosa rivista British Medical Journal, invita esplicitamente i medici a «dichiarare l’inidoneità alla vita in luoghi pericolosi per la salute e patogeni quali i Cpr, di fatto, sono».

«Bisogna considerare che la "direttiva Lamorgese" dice all’articolo 3 che, per poter essere inviato al Cpr, il migrante deve essere sottoposto a valutazione medica da parte di un medico del Servizio sanitario nazionale, che deve rilasciare un certificato di idoneità alla vita in comunità ristretta», spiega Nicola Cocco, infettivologo, esperto di medicina penitenziaria, già collaboratore del Garante nazionale dei detenuti, oggi medico della rete "Mai più lager - No ai Cpr", tra i principali promotori dell’appello. A un suo webminar recente sul tema hanno partecipato anche alcuni sanitari ferraresi. «Per poter essere idonea - spiega ancora Cocco -, una persona non deve avere problemi di salute, malattie infettive, croniche, psichiatriche e vulnerabilità sociali. Faccio sempre questa battuta: a leggere la norma, forse soltanto i calciatori Serie A potrebbero finire in un Cpr». Quando la polizia accompagna un migrante da espellere al pronto soccorso o nella struttura dell’Asl competente «ti dicono che hai 10 minuti per rilasciarci il nulla osta», afferma Cocco. Una termine che implica una differenza sostanziale di vedute: «Se viene vista come un nulla osta, non è una vera valutazione clinica e non tutela davvero le persone, nonostante quell’articolo 3 della direttiva: non si possono fare esami ematici, strumentali, non c’è mediazione culturale, non si fa un colloquio psichiatrico. Già di per sé ci sono forti criticità deontologiche». Cosa comporta? «In un’idoneità data come nulla osta, e nel 99% dei casi è di questo che si tratta, si escludono patologie infettive ma non si vanno a indagare altre dimensioni e, infatti, i Cpr sono pieni di persone con patologie croniche e psichiatriche. Ma cosa accade se rilascio l’idoneità e dopo pochi giorni la persona, per esempio, ha crisi epilettiche o va in ipoglicemia o accusa una depressione forte che lo porta a tentativi di suicidio, magari riusciti come quello di Ousmane Sylla a Ponte Galeria? Quel medico che ha rilasciato l’idoneità, siamo sicuri che non sia responsabile dal punto di vista penale?».

Il nodo è la realtà dei Cpr: «L’aspetto principale alla base della nostra campagna - spiega Cocco - è la condizione di sofferenza all’interno dei centri, che dovrebbero servire solo per il trattenimento in vista del rimpatrio, effettuato in meno della metà dei casi, ma dove le persone possono essere detenute fino a 18 mesi dopo il decreto Cutro. Queste persone, tra l’altro, si ritrovano in ambienti di degrado, sofferenza e abbandono. Drammaticamente, i Cpr sono peggio del carcere. La campagna dice che tutte queste condizioni di per sé sono patogene, come dice anche il dossier dell’Oms sulla detenzione amministrativa delle persone migranti - prosegue l’infettivologo -. Per questo chiediamo ai medici non di fare un obiezione di coscienza, che non esiste per questi casi, ma di dare la non idoneità a tutti perché nessuna persona può essere considerata idonea ai Cpr. Cito anche l’articolo 32 del codice di deontologia medica: il medico deve proteggere il paziente vulnerabile da ambienti che mettono a rischi la sua salute, mentre e qui ci viene chiesto di inviarcelo e ciò non è accettabile. Si chiede ai medici di fare da passacarte per la detenzione. Si fanno le diagnosi "politiche" - conclude Cocco - e allora è giusto che il medico decida in scienza e coscienza, che è ciò che fa la differenza».