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Ferrara, donna in fuga dalle botte: «Lotto per difendere mio figlio»

Alessandra Mura
Ferrara, donna in fuga dalle botte: «Lotto per difendere mio figlio»

La donna vittima di maltrattamenti è ora ospite di una Casa Famiglia del Ferrarese. Il giudice le ha imposto di trasferirsi in una struttura vicina al padre del piccolo

02 giugno 2024
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Ferrara Ha trovato riparo in una casa rifugio del Ferrarese, ma questa tregua dopo anni di sofferenze e abusi è minacciata da un’ordinanza del Tribunale dei minori di Potenza che impone il trasferimento del suo bambino in una comunità campana per consentire al padre di incontrarlo in forma protetta. Una decisione a cui la donna si oppone con tutte le sue forze, presentando assistita dal suo legale un reclamo per annullare il provvedimento. Puntando il dito soprattutto sui Servizi sociali del suo territorio che avrebbero agito, sostiene, solo nell’interesse dell’ex compagno.

È lei stessa a ripercorrere la storia di una relazione turbolenta, fatta di violenze, botte, ricatti emotivi ma anche di una dipendenza affettiva mista a timore che per due volte l’ha portata a sporgere denuncia (con relativa attivazione del codice rosso) e poi a dichiarare di volerla ritirare, pur in presenza di reati che prevedono di procedere d’ufficio. Il tutto complicato dall’assenza di refertazioni mediche che comprovassero le botte «perché - spiega - lui mi controllava al punto che non potevo fare un passo senza che non sapesse dove fossi, e mi ha sempre impedito di andare in ospedale».

La relazione era iniziata nel 2016, due anni dopo la nascita del figlio. All’inizio lui era dolce e innamorato «poi è cambiato, è diventato ossessivo, bastava un nulla per farlo scattare e per menare le mani». Una situazione resa più difficile dalla mancanza di indipendenza economica, «perché io lavoravo per lui e in quegli anni non percepivo stipendio».

Il primo schiaffo avviene per uno sguardo ritenuto inopportuno, e da allora, prosegue, è stato un crescendo. Il primo punto di rottura nel 2021, quando per motivi futili il compagno l’afferra per i capelli e la trascina per casa. «Ho sporto denuncia, ma non c’era referto medico perché a parte i capelli strappati non c’erano altri segnali». La donna viene collocata in una comunità, ma l’esperienza si rivela negativa, mentre con l’ex avviene un riavvicinamento condizionato dall’impegno a seguire un percorso psicologico per uomini maltrattanti. Il procedimento avviato presso il Tribunale dei Minori viene archiviato e il padre può tornare a vedere il bimbo. La donna ottiene anche di poter percepire uno stipendio.

L’equilibrio regge per un po’ di tempo, ma nel giugno del 2023 la crisi riesplode: «Mi ha accusato di guardare altri uomini e ha iniziato a picchiarmi. Questa volta però non eravamo in casa nascosti agli occhi di tutti, ma fuori, in un luogo pubblico». Anche in quel caso però la donna non riesce a farsi refertare, ma si difende allontanandosi da casa: «Non volevo denunciarlo, allora mi sono rivolta ai carabinieri dicendo di avvisare il mio compagno che mi allontanavo perché era violento, e non si trattava di sottrazione di minore». Ma in casi come questi, le viene risposto, è necessario fare denuncia.

A settembre 2023 dunque scatta la seconda querela e vengono di nuovo attivati i Servizi sociali. «C’era la stessa operatrice che già in precedenza, mentre ero nella Casa rifugio, mi aveva osteggiata, dicendo che non ero una brava madre. La sua reazione è stata: “Cos’hai combinato questa volta”?» Con queste premesse, continua la donna, «ho rifiutato di andare nella Casa Famiglia indicata da lei e mi sono rifugiata a casa di mia figlia». L’idea è quella di scappare lontano, al Nord, «ma per farlo avevo bisogno che lui si sentisse tranquillo, e allora ho accettato di ritirare la denuncia». Le settimane successive sono dedicate a preparare la fuga, portando via gradualmente da casa i vestiti e le sue cose. La situazione accelera quando il compagno scopre che la donna aveva chiesto e ottenuto un colloquio con il giudice del Tribunale dei minori di Potenza, competente per territorio. E sono altre botte. «Non c’era tempo, il giudice mi aveva consigliato: “Prima si metta in sicurezza, poi vedremo le carte”».

A inizio febbraio di quest’anno la donna lascia la sua città e raggiunge Reggio Emilia, dove presenta un’altra querela contro l’ex compagno e pochi giorni dopo il giudice di Potenza con un provvedimento urgente stabilisce che il bimbo deve essere posto in una comunità, seguito dalla mamma, vietando ogni rapporto con il padre. Madre e bimbo trovano accoglienza nel Ferrarese ma a marzo, in attesa che l’istruttoria si completi, consente al padre di parlare con il piccolo una volta alla settimana tramite videochiamata. L’esperienza, riferiscono gli operatori della struttura ferrarese, è però un disastro, con «il comportamento del padre molto prossimo alla minaccia e di negazione verso le regole dell’incontro».

Al tempo stesso, però, non avendo ancora ricevuto il verbale di audizione della madre da parte del Tribunale dei minori di Bologna, il giudice accoglie la richiesta dei Servizi sociali di collocare il bimbo in una struttura del territorio di provenienza con la motivazione che «pur continuandosi a garantire la tutela della mamma e del minore, agevolerebbe gli interventi di sostegno da parte del servizio competente e, cosa ancor più importante, agevolerebbe gli incontri (monitorati) padre-figlio, incontri che di fatto, per unilaterale decisione della comunità attualmente ospitante, non stanno più avvenendo, con grave compromissione della sfera affettiva del minore».

Un colpo al cuore, per la madre, dopo aver lottato per porre tra lei e l’ex chilometri di distanza di sicurezza: «Non sono stati presi in considerazione anni di maltrattamenti fisici e psicologici, ignorati i codici rossi, silenzio sull’ansia e il disagio che le videochiamate avevano provocato sul bimbo», replica. Nei giorni scorsi tramite il suo avvocato ha impugnato l’ordinanza, che - si legge - ha violato le norme sul contraddittorio perché emessa senza ascoltare le parti, e la cui urgenza poggia su premesse sbagliate, ovvero “mettere alla prova la capacità genitoriale del padre”. Capacità che, argomenta il ricorso, è già stata smentita delle relazioni del personale del Centro antiviolenza ferrarese sull’esito delle videochiamate e che descrivono il comportamento dell’uomo «minaccioso» e con «evidente dimostrata mancanza di affezione e di familiarità nei confronti del minore».