Il caso Regal Rexnord. Spremi, licenzia e scappa
Nell’azienda ferrarese hanno spremuto il “capitale umano” e ora che non c’è rimasto più niente da strizzare pensano di andarsene tranquillamente in Asia senza scrupoli. Con una mail inviata a 77 lavoratori, licenziati con un clic
Riprendo dal servizio della collega Annarita Bova pubblicato ieri le testimonianze dei lavoratori. «Sono entrata a lavorare alle 8, in un normalissimo lunedì mattina come tanti altri. Alle 9.10 sono passati gli Rsu nei reparti e ci hanno detto che dovevamo uscire perché avevano una notizia molto brutta da darci, così hanno spiegato della Pec. Nessuno dell’azienda ha mai comunicato niente».
E ancora: «Non sapevamo nemmeno di essere in crisi fino a questo punto. Non ci hanno mai dato motivo: venivano fatte riunioni a cadenza mensile, sottolineando anche la validità del nostro lavoro con numeri che li lasciavano soddisfatti». Respirone. Pausa. Dal Wisconsin, Stati Uniti, il ceo della multinazionale Regal Rexnord ha deciso di spegnere la fabbrica di Masi Torello, nel Ferrarese, e di portare tutta la produzione in Cina e India.
L’ha spenta con un clic, su una mail certificata che ha informato gli ignari lavoratori. Neppure i dirigenti locali dello stabilimento ne erano a conoscenza, così è stato detto.È una vicenda che lascia attoniti e increduli. Immaginatevi tra quei 77 lavoratori, finora rassicurati dai report mensili.
Certo, qualche problemuccio c’era, il settore automotive non se la passa bene ma, diamine, ci sono modi, tempi, tavoli per affrontare i problemi. Questi invece mandano una Pec per dire che è finita. Personalmente, sono affranto per l’assoluta mancanza di sensibilità di questi pseudo-manager che calpestano le persone senza accorgersene. Ho vissuto, da giornalista, una vicenda simile, tanti anni fa quando facevo il cronista in un’altra città.
Ricordo perfettamente la data, 13 maggio 2006, perché era il primo giorno di un mio nuovo incarico. «Corri alla Delphi, hanno convocato un’assemblea urgente con tutti i 400 lavoratori, ci sta andando anche il vescovo». Arrivai alla fabbrica, i rappresentanti sindacali scendevano dallo scalone degli uffici disperati, con le mani nei capelli, e le operaie piangevano.
«Ci hanno mandato una mail per dire che chiudono lo stabilimento». La brutalità del mezzo, una mail. Oggi la tecnologia si è evoluta e la mail è certificata, una Pec: i 77 licenziamenti hanno il crisma della certificazione, che non si abbia a dubitare sulle reali intenzioni della proprietà... Il metodo è barbaro e sottende una disumanità imperante. Gli operai sono numeri che si possono cancellare, non persone con bisogni e diritti.
Esiste un’imprenditoria matura, con cui ci confrontiamo quotidianamente e proficuamente. Sono imprenditori che hanno raggiunto il successo grazie ai sacrifici, alla perseveranza e all’ingegno. Ma loro stessi sono i primi a sapere che senza quell’humus in cui sono prosperati – i collaboratori, i lavoratori, i fornitori dell’indotto, insomma il “capitale umano” – probabilmente non avrebbero combinato niente. Adesso questi stessi imprenditori “restituiscono” al territorio parte di quello che hanno ricevuto, in tante forme diverse e non solo pagando gli stipendi: fanno beneficenza, sostengono progetti sociali, restaurano monumenti, sponsorizzano la cultura. Questi altri, invece, “rapinano” il territorio.
Hanno spremuto il “capitale umano” e ora che non c’è rimasto più niente da strizzare pensano di andarsene tranquillamente in Asia senza scrupoli. Spremi, prendi, licenzia e scappa. Un giornale come il nostro qualcosa può fare. Tenere accesi i riflettori, ad esempio, per convincere la politica a osteggiare in tutti i modi i predoni del territorio e a colpirli nelle tasche, l’unico posto dove sentono qualcosa.