La Nuova Ferrara

Ferrara

Memoria

Ferrara, dalle Olimpiadi ad ad Auschwitz: storia di Gino Ravenna

Mirko Rimessi
Ferrara, dalle Olimpiadi ad ad Auschwitz: storia di Gino Ravenna

L’atleta Pgf gareggiò a Londra e nel 1944 morì nel campo di sterminio

3 MINUTI DI LETTURA





Ferrara Il 2025 è un anno particolare per la parola "Liberazione": ricorrono infatti l’80° anniversario sia della Liberazione d’Italia, sia del campo di concentramento di Auschwitz, che avvenne il 27 gennaio. Proprio per celebrare la doppia ricorrenza, la Palestra Ginnastica Ferrara ha deciso di pubblicare un piccolo volume che racconti le storie che la legano a questo nero capitolo della storia dell’uomo, che uscirà prima della seconda ricorrenza citata, quella del 25 aprile. Nel frattempo, si vuole, come ogni 27 gennaio ma in particolare quest’anno, omaggiare la memoria di tutti i morti durante la Shoah con la storia di un palestrino particolare, Gino Ravenna, l’unico olimpionico Italiano (Londra 1908) morto durante l’Olocausto, proprio nel campo vicino alla cittadina polacca. Gino Ravenna (Ferrara, 30 agosto 1889 - Auschwitz, 1944) è stato uno dei 29 campioni della Palestra Ginnastica Ferrara incaricati di rappresentare l’Italia nel concorso generale di ginnastica artistica a squadre ai Giochi Olimpici di Londra 1908. La PGF, infatti, dopo aver vinto le selezioni nazionali, aveva ricevuto dalla Federazione Ginnastica d’Italia il prestigioso compito, cogliendo nella città britannica un lusinghiero sesto posto con lodi per il metodo dimostrato, e gli atleti furono riabbracciati dalla Città di Ferrara con ogni onore al loro rientro in patria. La passione sportiva caratterizzò tutta la vita di Gino che, rientrato dalla Prima Guerra Mondiale, si dedicò al commercio. Tutta la famiglia Ravenna era conosciuta a Ferrara e uno dei 5 fratelli di Gino, Renzo (anche lui, da giovane, Palestrino), fu Podestà di Ferrara dal 1926 al 1938, uno dei due soli podestà fascisti di origini ebraiche in Italia prima dell’introduzione delle leggi razziali. A parte la rinuncia alla carica del fratello, le leggi razziali non causarono troppi problemi per l’attività commerciale e nemmeno nei rapporti sociali, benché anche Gino fosse stato escluso, come tutti, da associazioni, circoli e, naturalmente, dal partito fascista. La svolta fu invece rappresentata, come per la quasi totalità degli Ebrei italiani, con l’8 settembre 1943. Dapprima Gino si rifugiò nella frazione di Albarea, per continuare a dirigere da lì l’attività, ma l’arresto del figlio Eugenio, detto "Gegio", l’8 ottobre fece precipitare gli eventi. Dopo aver provato invano di farlo scarcerare, la famiglia tentò la fuga in Svizzera, ma arrestati a Domodossola, finirono prima nel carcere di via Piangipane, per poi essere condotti, l’11 febbraio 1944, al Tempio di via Mazzini 95, trasformato in campo di concentramento provvisorio per pochi giorni, in attesa che il nuovo rastrellamento degli ebrei ferraresi si tramutasse nel trasferimento a Fossoli. La permanenza nel campo modenese fu breve e la storia diventa tristemente uguale a quella di altre migliaia di persone: il viaggio, durato quattro giorni (dal 22 al 26 febbraio), sul convoglio "n.8" per Auschwitz e gli eventi che portarono alla morte di quasi tutta la famiglia di Gino: si salvò infatti solo il figlio Gegio, che sarà uno dei soli cinque ebrei ferraresi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz, grazie alla liberazione russa del 27 gennaio 1945.È da Eugenio quindi che si apprendono i fatti successi in Polonia, pochi per la verità, dove, quello che fu un olimpionico acclamato per la gloria portata al nostro Paese, fu trasformato in un numero, il 174.541. Gino si era salvato dalla prima "selezione" ed era riuscito a rimanere accanto al figlio, aveva lavorato per un mese e mezzo circa, fino a quando le forze lo avevano assistito. Per alcuni giorni rimase nella baracca ma al terzo giorno Gegio non lo trovò più. Un deportato che parlava italiano gli riferì che da poco Gino era stato prelevato. Prima di lasciare la baracca gli aveva raccomandato di dire al figlio che lo salutava e "di tener duro". Solo che in quel terzo giorno il camino aveva ricominciato a fumare.