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“Oba”, dal campo profughi di Jenin a campione di Ferrara. «Vittoria per la mia Palestina»

Sergio Armanino
“Oba”, dal campo profughi di Jenin a campione di Ferrara. «Vittoria per la mia Palestina»

Il pugile del maestro Duran conquista la cintura Ubo dei pesi mosca. Ahmed: «Questo titolo lo dedico anche al popolo palestinese. Io combatto sul ring perché mi diverto, loro combattono per la vita»

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Ferrara «Io combatto per divertimento, loro per sopravvivere: dedico questa vittoria anche alla mia Palestina». Non perde il sorriso Ahmed Obaid, felice per aver conquistato la cintura Ubo dei mosca, battendo ai punti il venezuelano Rafael Marquez. Un match, l’altra sera al pala palestre, a senso unico, ma non certo per concessione dell’avversario: “Oba” se l’è conquistato dal primo all’ultimo gong, dando prova di una preparazione atletica perfetta, “danzando” sul ring senza sosta, colpendo in maniera puntuale e fulminea, schivando con altrettanta velocità. Un capolavoro sotto ogni punto di vista, contro un avversario che aveva vinto metà dei suoi match per ko, piccolo e dalla mano pesante: nel finale si è lasciato andare a un paio d’assalti scomposti, ferendo l’allievo di Momo Duran all’arcata destra e sotto quella sinistra, ma non ha cambiato l’esito e il verdetto unanime, dopo 8 round dominati. «Un ottimo combattimento contro un buon pugile: ha portato a casa la cintura e sono contento», commenta il maestro e manager.

Strappiamo “Oba” agli amici, ai mille selfie e foto, lo seguiamo nello spogliatoio, dove i preparatori atletici Becchetti, papà Romano e Alessandro, lo attendono: verifica delle ferite, battute, chiacchiere. L’adrenalina sta scorrendo ancora a mille nelle vene, eppure il 29enne “Oba” rimane lucido nell’analisi: «Il mio avversario era giovane, veloce, nella categoria sono tutti più bassi di me e mi vengono sotto, ma non c’è riuscito più di tanto, perché ho “danzato”. Quando si è messo a spingere, mi sono arrivate due testate, ma l’ho schermato, muovendomi avanti e indietro». Poi, il retroscena: «Il nostro obiettivo era il titolo italiano, ma il detentore ha avuto un problema e nessuno ha avuto il coraggio di affrontarmi in casa mia. Così è arrivato lui dal Venezuela. Io il record l’ho fatto combattendo in casa di tutti...».

Certo che per un palestinese volere così fortemente il titolo italiano sembra strano, eppure non lo è: «L’Italia è la mia seconda casa, mi ha ospitato, accolto a braccia aperte. In Palestina ho ancora dei parenti che stanno soffrendo, vivono alla giornata: io combatto sul ring perché mi diverto, loro combattono per la vita. Questo titolo lo dedico anche al popolo palestinese. L’anno scorso ero là, ho visto persone ammazzate davanti ai miei occhi». C’è una “normalità” diversa nelle parole di chi, come “Oba”, è nato nel campo profughi di Jenin. Lui racconta con il sorriso, travolto da mille emozioni: «Cosa faccio oltre la boxe? L’autista, il corriere, ogni tanto anche il pizzaiolo: non sono un calciatore, non guadagno abbastanza...».

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