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Bombe sull’Iran, le voci della comunità ferrarese

Alessandra Mura
Bombe sull’Iran, le voci della comunità ferrarese

La testimonianza: «Al mio papà di 88 anni scrivo una lettera al giorno»

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Ferrara “Ciao, mio caro Papà, internet è fuori uso da tre giorni e non ho tue notizie. Ora ti scrivo una lettera, anche se le nostre lettere non ti arrivano da molto tempo...” È una conversazione a distanza quella che Maryam, da dieci anni in Italia, laureata in Arti visive a Bologna, ha avviato con il padre di 88 anni rimasto in Iran. Una lettera al giorno, spiega lei, per sentirsi vicini anche se divisi dalla guerra e, prima ancora, dal regime. In queste ore la sua famiglia è riuscita a scappare da Teheran, ma avere notizie è difficile, con la connessione a singhiozzo, interrotta per impedire la comunicazione con il resto del mondo. Dall’attacco israeliano ai bombardamenti americani, un crescendo di angoscia: «Non dormo più. Domenica ho aspettato l’una e mezza di notte per coricarmi, perché gli attacchi avvengono in genere col buio, dopo la mezzanotte, e cerco sempre di sapere cosa sta succedendo attraverso i messaggi che arrivano nelle chat. Poi alle 7 mi sono svegliata con la notizia del bombardamento da parte degli americani e non sono riuscita a parlare con i miei».

E se una voce cara è la più grande delle consolazioni, a farsi intermediari di questi temporanei sollievi sono amici e conoscenti: «Un’amica è riuscita a parlare con mio fratello, mi ha riferito che stanno bene e sono riusciti ad andare via da Teheran. Uno dei miei fratelli, quello più calmo, in grado di gestire le crisi, qualche giorno fa è andato nel panico quando una bomba è caduta vicino a casa sua, si sono rotte le finestre e un pezzo di androne è crollato nel giardino. È terribile, vorrei tornare per morire insieme alla mia famiglia». In Iran, racconta amaramente Maryam, fin da bambini si diventa esperti in geopolitica. Era bimba, al suo primo giorno di scuola, quando è scoppiata la guerra Iran-Iraq, e oggi come allora «è sempre il popolo innocente a pagare. Anche a Gaza è lo stesso. E manifestare per la Palestina non significa difendere Hamas, ma una popolazione che viene distrutta».

I traumi, le cicatrici, restano nel Dna, anche dopo tanti anni passati in Italia: «Ancora adesso, se mentre fumo una sigaretta passa una macchina delle forze dell’ordine, ho l’istinto di nasconderla. Sono contro qualsiasi guerra, ma tutti sperano che cada questo regime. Il problema è il dopo, perché gli interessi economici contano più della pace; al tempo stesso si teme anche che si arrivi a una resa, a un accordo, perché poi l’oppressione diventerebbe ancora più dura con il pretesto della sicurezza». Il pensiero corre a un uomo di 88 anni, che Maryam chiama “anima”. Una nostalgia feroce, che lei cerca di domare scrivendo lunghe lettere a mano, come quando internet non c’era.

Anche Leily, che dal 2013 vive a Ferrara, condivide gli stessi sentimenti. Anche lei, come Maryam, si sveglia nel terrore se di notte scoppia un temporale. La sua casa, dice, ormai è a Ferrara. Ma i suoi ricordi sono rimasti in Iran e l’ultima volta che è tornata nel suo Paese, nel 2018, non li ha più ritrovati. «I miei mi dicevano di restare in Italia, ma io avevo voglia di vederli e sono andata da sola, per far loro una sorpresa. Invece la sorpresa l’ho ricevuta io, trovando una situazione già molto pesante. Il mio passato non c’era più, i luoghi della mia infanzia erano stati distrutti, la gente per la strada era stressata e arrabbiata con tutti. Mi sono sentita una straniera nel mio Paese».

Anche lei, come Maryam, ricorda la guerra Iran-Iraq, e quando, finito il conflitto, «non avevamo giocattoli e ce li costruivamo noi, facendo bambole con la spugna». Dopo quella guerra, «tutto è cambiato e io, ragazza vivace, non riuscivo a sopportare l’oppressione del regime». A dare misura della disperazione di un popolo privato della libertà, continua Leily, il pensiero che «la guerra, per quando atroce, non è peggio del regime che tre anni fa in tre giorni ha ucciso 1.600 giovani che protestavano. Tutti sono stanchi».

È un popolo che ha fatto della resilienza un istinto naturale, e nei luoghi non bombardati la vita continua come può. «Ma è spaventoso non avere notizie delle persone a cui vuoi bene, ieri ho avuto un attacco di panico dopo due giorni di silenzio, poi finalmente a mezzogiorno sono riuscita a parlare con mia mamma. Sono studentessa, in genere quando preparo gli esami spengo il telefono, adesso lo tengo sempre in mano, perché in Iran la connessione va e viene e non si può rischiare di perdere neanche uno spiraglio. Di bello c’è che molti si stanno dando da fare per aiutare, c’è un gruppo Telegram in Iran con persone che fanno da “postini” e cercano di metterti in contatto con parenti e amici».

Preoccupazione e ansia per le sorti del proprio Paese già martoriato e per i familiari rimasti in patria è anche un commerciante ferrarese che vive da molti anni in città: «Sono ore tristi, sono riuscito a mantenere i contatti con i miei genitori e i miei fratelli, tranne un giorno in cui era saltato Internet. Ci sono due dittatori che stanno distruggendo le persone, e nessuno dice niente».

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