Ferrara, Mian dopo il Premio Estense: «Coronamento di tante fatiche»
L’autore commosso: «La mia sfida è stata non rinunciare al mestiere»
Ferrara È Marzio G. Mian con “Volga Blues. Viaggio nel cuore della Russia” (Ed. Gramma Feltrinelli) il vincitore della 61ª edizione del Premio Estense. Il verdetto è arrivato alla terza votazione caratterizzata, come da tradizione, da un confronto vivace e partecipato tra la giuria tecnica e quella popolare. Con ancora gli occhi lucidi per l’emozione Mian ha ripercorso con la Nuova le tappe del lavoro e condiviso la gioia della vittoria.
Lei oggi si considera più scrittore o giornalista?
«Sono innanzitutto un giornalista, un cronista. È questo il mio mestiere. Con i miei libri ho voluto raccontare quello che spesso non veniva raccontato, interrompendo un blackout informativo che riguardava il Paese più grande del mondo. Scrivere significa anche riavvolgere il nastro della storia, guardare al presente solo dopo aver compreso da dove arriviamo. Questo libro unisce il rigore dell’inchiesta al ritmo di un romanzo, con tratti da thriller. La scrittura è fatica, ma è l’unico modo per dare senso e profondità al racconto».
Qual è stato, secondo lei, l’aspetto più apprezzato dell’opera premiata?
«Due elementi: la volontà di raccontare la Russia di oggi e la qualità della scrittura. Ho cercato di dare al saggio una forma narrativa coinvolgente, senza rinunciare alla fedeltà dei fatti. Per raccontare ciò che accade oggi, era inevitabile ripercorrere le radici storiche e culturali».
Ha lavorato anche nella stampa locale. Che ruolo ha avuto questa esperienza?
«Io ho iniziato in America e poi sono approdato alla provincia di Como. Non definirei il giornalismo locale una palestra: è giornalismo puro. Prima di tutto occorre raccontare il proprio quartiere. Non cambierà mai questa gerarchia: chi non sa leggere il proprio vicino non può pretendere di raccontare il mondo».
La sfida maggiore durante la stesura del libro?
«Viaggiare in Russia senza visto giornalistico. Questa era la difficoltà principale: riuscire a tornare a casa portando con me il materiale raccolto. E non va dimenticato il lavoro condiviso: ho compiuto questo viaggio con il fotografo Alessandro Cosmelli. È stata una spedizione a due voci, che ci ha spinti non solo a osservare la Russia, ma anche a riflettere sul nostro mondo e sulla nostra democrazia. Sono partito con le mie idee, ma senza pregiudizi, cercando un dialogo vero».
C’è un incontro che l’ha colpita più degli altri?
«Sì, i giovani. Alcune delle loro voci le ho riportate nel libro. Mi chiedevano come li vedevamo, quale fosse oggi il posto della Russia nel mondo. Erano preparati, parlavano inglese, ma avevano anche una delicatezza commovente. La natura del popolo russo è fatta di coraggio e sacrificio, ma anche di una particolare remissività davanti al potere. È una contraddizione che spiega il loro bisogno di un’autorità forte, di uno zar che non sia debole».
Che significato ha per lei questo premio?
«È il coronamento di tante fatiche. Ho scelto un percorso indipendente, lasciando un grande editore per lavorare da solo: direttore, redattore e revisore di me stesso. Non rinunciare mai al mestiere, questa è stata la sfida».
Perché ha scelto di inserire nel titolo la parola “blues”?
«Il blues ha un tono musicale che mi appartiene. È la musica dei fiumi, penso al Mississippi ma anche al Po. Blues significa malinconia, nostalgia, perfino assenza di felicità, tutti sentimenti che accompagnano l’immagine del fiume. Ho sempre pensato che il fiume sia stato l’alleato più forte dell’umanità, eppure oggi lo stiamo abbandonando».
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