Simona Dolce a Ferrara con “Il vero nome di Rosamund Fisher”: «Oltre il muro della villa c’era il lager»
Un’infanzia all’ombra di Auschwitz. Domenica la presentazione del libro tratto da una storia vera
Ferrara Un’intervista letta su un giornale anni fa, una testimonianza che resta dentro e la voglia di raccontare una storia. Quella storia. Domenica al Meis Simona Dolce presenterà “Il vero nome di Rosamund Fischer”, romanzo edito da Mondadori, che prende le mosse da una vicenda incredibilmente vera. In vista dell’incontro a Ferrara (domenica 15.30, Meis) si racconta ai lettori della Nuova Ferrara.
Partiamo dall’inizio: come nasce questo libro?
«Nasce dall’unica intervista esistente – datata 2013 – a Inge Brigitte Höss, la terzogenita del comandante di Auschwitz. In quei pochi passaggi la donna, ormai anziana, raccontava di aver trascorso un’infanzia molto felice, di amare ancora suo padre e di essere scappata in Spagna cambiando nome. Era evidente che la sua storia custodisse dei cortocircuiti molto potenti e mi sono affezionata subito all’idea di indagarli. Sono passati degli anni, quell’intervista è diventata un tarlo, finché nel 2020 ho iniziato a lavorare sulla sua biografia fittizia».
Chi è Inge Brigitte e chi è stata per lei?
«Inge/Rosamund è una figura tragica, incapace di fare i conti con la memoria e con l’identità, molto fragile e per questo infantile, a volte inconsapevole. È una donna che è rimasta da sola, circondata dalle contraddizioni profonde che la agitano».
Com’è riuscita a mantenere le distanze e a raccontare la sua storia senza giudizio?
«Rosamund è un personaggio complesso e per questo umanissimo. Quando ha vissuto ad Auschwitz era una bambina che credeva a ciò che le raccontavano i genitori. Quando è scappata in Spagna era un’adolescente spinta dal desiderio di autodeterminarsi come individuo, nonostante il suo cognome. Infine da anziana è una donna indebolita dal senso di colpa e a tratti incapace di ricordare. L’ho giudicata anche io, lasciandomi però lo spazio emotivo per cambiare opinione ogni volta».
Prima della scrittura si è dedicata alla ricerca storica. È stata una parte importante del lavoro?
«La ricerca storica è stata la condizione necessaria per iniziare a pensare di scrivere questa storia, e durante la stesura non ho mai smesso di affidarmi alle fonti. Quello della documentazione è stato un percorso emozionante e doloroso che mi ha portato a scoprire anche tante vicende intorno alla famiglia che purtroppo non sono rientrate nel romanzo perché il punto di vista che ho scelto è estremamente preciso, è il cono di sguardo di Inge Brigitte».
C’è stato un momento in cui ha temuto di non riuscire a raccontare la vicenda come avrebbe voluto?
«La difficoltà maggiore è stata rispettare il perimetro di racconto che avevo stabilito, cioè guardare il mondo dal punto di vista di questa bambina che è la figlia del carnefice. Quando Rudolf esce di casa e va al lager, è stato difficile non cedere alla tentazione di guardare cosa accade di là».
Inge/Rosamund riesce a venire a patti col suo passato? Da bambina non sapeva ma crescendo scopre la verità. Come reagisce?
«La sua reazione non è univoca ma cambia nel corso del libro. Il romanzo è lo sviluppo di questo percorso che nasce dalle domande: che uomo è in realtà il padre che ha amato? L’infanzia felice che ricorda di aver vissuto era una menzogna? Fino a che punto si può tirare una linea di separazione fra la famiglia e il mondo fuori? E infine, chi è Rosamund?».
La villa e Auschwitz, il padre amorevole che allo stesso tempo è comandante nel campo… Difficile immaginare tutto questo, com’è stato prendere atto di questa dualità e narrarla?
«L’aspetto più spaventoso di Rudolf Höss è che sembra un uomo e un padre comune. Proietta la sua vita dentro un’immagine incantevole, circondato dall’amore di moglie e figli, e guarda al futuro radioso che sta costruendo. Però quel futuro nazificato è stato eretto sui cadaveri dei prigionieri che ha ucciso. Rudolf incarna questo dualismo e mi sono chiesta che impatto aveva tutto questo sui suoi figli».
La parte più complessa di questo lavoro?
«La più complessa e la più stimolante è stata far convogliare la ricerca storica all’interno del romanzo. Da una parte ho rispettato le fonti, dall’altra ho voluto costruire il piano spirituale della protagonista immaginando questa bambina di cui nessun testimone racconta… dunque potevo riempire quel silenzio della storia con la letteratura. Raccontare le sue paure e i giochi con i fratelli, gli animali che coccolava, le cefalee che la costringevano ad alzarsi di notte in preda agli incubi o più probabilmente alle visioni terrificanti che scorgeva dalla sua camera da letto, al di là del muro di cinta che divideva la villa dal lager».
