Modena l’ha cresciuta e formata, lei cambia la medicina a Madrid
Grande scoperta della ricercatrice Annalaura Mastrangelo laureata Unimore. I suoi studi hanno certificato la causa dell’aterosclerosi: potrà nascere una cura
MODENA. C’è un metabolita prodotto dai batteri dell’intestino umano che può causare l’aterosclerosi, una malattia silenziosa e potenzialmente letale che porta all’infarto e all’ictus. Questo composto si chiama propionato di imidazolo (ImP), e la sua presenza nel sangue è stata associata ai primissimi stadi della malattia, anche in persone che sembrano perfettamente sane. La grande novità è che l’ImP non è solo un indicatore: provoca direttamente la malattia promuovendo l’infiammazione delle arterie attraverso l’attivazione di un recettore nei globuli bianchi dell’organismo. Rilevarlo in tempo, quindi, può permettere una diagnosi precoce, con esami del sangue semplici ed economici. E in futuro, grazie a farmaci mirati, potrebbe essere possibile bloccare il meccanismo prima che la malattia si sviluppi. La prima firmataria di questo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature e sulle prime pagine del quotidiano spagnolo El Paìs, è l’ex studentessa di UniMore Annalaura Mastrangelo, 38 anni, d’origini abruzzesi, oggi ricercatrice al Centro Nazionale Spagnolo per la Ricerca Cardiovascolare (Cnic) di Madrid. La sua scoperta, frutto di un lavoro lungo otto anni con collaborazioni internazionali, rappresenta una svolta per la medicina moderna: per la prima volta, un semplice marcatore prodotto dal microbiota intestinale può svelare con largo anticipo il rischio cardiovascolare, aprendo la strada a una nuova era di prevenzione personalizzata.
Dottoressa Mastrangelo, cosa significa questa scoperta?
«Abbiamo identificato un composto chiamato propionato di imidazolo (ImP), prodotto dai batteri del nostro intestino, che può essere rilevato nel sangue anche in persone apparentemente sane. La sua presenza è associata alla fase iniziale dell’aterosclerosi, una malattia delle arterie causata dall’accumulo di grasso e colesterolo sulle loro pareti, che le rende più strette e rigide, ostacolando il flusso sanguigno e potendo provocare infarti, ictus o trombosi. Questo significa che, attraverso un semplice esame del sangue, potremmo diagnosticare precocemente una malattia che altrimenti emerge solo con esami avanzati e costosi».
Ma questo metabolita non si limita a segnalare il rischio: lo provoca anche. È corretto?
«Esatto, ed è questo il punto chiave. Abbiamo dimostrato che ImP non si limita a segnalare il problema: lo provoca. Quando somministrato in modelli animali, induce la formazione di placche nelle arterie attivando un recettore specifico, l’Imidazoline I1R. Bloccando questo recettore, la malattia si ferma. È quindi una scoperta doppia: diagnostica e terapeutica».
Da cosa è nata l’idea di indagare proprio quel metabolita?
«Lo studio si inserisce in un progetto più ampio iniziato 15 anni fa, in collaborazione con la banca Santander: migliaia di lavoratori monitorati per i primi segni di malattie cardiovascolari. Otto anni fa abbiamo deciso di concentrarci sul microbiota. Analizzando il sangue e la flora intestinale, abbiamo scoperto che ImP era elevato in alcune persone sane ma con segni iniziali di aterosclerosi. Da lì è cominciato tutto».
Quante persone potrebbero essere salvate da questa scoperta?
«Nei nostri dati, circa il 20% delle persone apparentemente sane avevano livelli elevati di ImP. È difficile fare stime su larga scala ma, secondo i nostri calcoli, l’impatto potrebbe essere enorme».
Quanto è concreta oggi la possibilità che questo esame entri nelle analisi del sangue di routine?
«È il nostro obiettivo più vicino. La parte diagnostica è quella che si potrà applicare prima, molto più rapidamente rispetto ai farmaci. Speriamo di renderla disponibile nei prossimi anni, anche grazie a finanziamenti europei».
E sul fronte dei farmaci? Quanto siamo vicini a una terapia?
«È ancora presto, ma lavoriamo già su molecole che potrebbero diventare farmaci. L’idea è una terapia personalizzata che combini il trattamento del colesterolo con quello del recettore attivato da ImP».
Che ruolo gioca lo stile di vita nella produzione di questo metabolita?
«Fondamentale. Abbiamo osservato che ImP è più basso in chi segue una dieta mediterranea o colazioni più sane. Ancora una volta, la dieta incide direttamente sul microbiota e sulla salute del cuore. Non dobbiamo aspettare un farmaco: possiamo iniziare a fare prevenzione anche a tavola».
C’è stato un momento preciso in cui avete capito di aver fatto una scoperta così importante?
«Quando abbiamo visto che ImP causava realmente la malattia nei topi, è stato uno shock. Poi il farmaco, e infine la pubblicazione su Nature. È stato un crescendo continuo, davvero emozionante».
Lei è la prima autrice, ma questo è stato un lavoro di squadra.
«Nell’articolo siamo in 39 firmatari, ma se contiamo tutti i ricercatori, i medici, i tecnici, e i volontari, parliamo di oltre un centinaio persone. È stata una grande avventura collettiva».
Lei è italiana, ha studiato a Modena, ma questa scoperta l’ha firmata in Spagna. Come mai?
«Sono abruzzese, ma ho scelto Modena per la laurea in farmacia. Grazie UniMore ho scoperto l’opportunità di fare una tesi all’estero, sono andata in Spagna per un Erasmus e mi sono innamorata del mondo della ricerca. Dopo la laurea, sono tornata a Madrid per il dottorato, e poi ho iniziato il lavoro di ricercatrice nel Cnic».
Come immagina il futuro della medicina cardiovascolare, nei prossimi 5 o 10 anni?
«Sempre più orientato alla prevenzione e alla medicina personalizzata. L’obiettivo è fermare la malattia prima che arrivi l’infarto. Non solo ridurre i decessi, ma evitare che le persone si ammalino. Questa scoperta, spero, sarà uno dei primi passi in quella direzione».