«Mio figlio scappato in treno per un gelato. Le nostre battaglie contro un sistema che discrimina»
La storia di un bambino di 7 anni con neurodivergenza. La madre racconta a Mamme Magazine: «Costretti a subire tante ingiustizie»
La voglia di mangiare il suo gelato preferito lo ha spinto a prendere un treno da Saronno a Milano Cadorna, giovedì scorso, senza avvisare i genitori. Ma il protagonista ha solo sette anni ed è affetto da una neurodivergenza. Ha viaggiato accanto a una signora anziana facendo credere di essere con lei. Dopo un’ora e mezzo è stato ritrovato nello scalo ferroviario milanese mentre i genitori vivevano momenti di angoscia e lo cercavano nei dintorni dell’abitazione insieme ad amici e conoscenti. La mamma, partendo da questo episodio, racconta con una lettera pubblicata sul sito specializzato Mamme Magazine il proprio quotidiano. È stato di giovedì. A cena, la famiglia riunita in giardino con il caldo piacevole di giugno. Lui scende in taverna a giocare. È una scusa ma noi non lo sappiamo ancora. A lanciare l’allarme pochi minuti dopo è mia figlia. «Mamma giù non c’è». Cerchiamo in tutta la casa. Sparito. Panico e caldissimo alle guance.
Il mio bambino di sette anni. Le ricerche e l’attesa, le preghiere e mille volte a chiedere ancora: «l’avete trovato?» E poi finalmente rieccolo. Gli agenti della Polfer lo trovano alla stazione di Milano Cadorna. Lo abbraccio e lo tengo stretto forte. Da solo ha fatto oltre un chilometro a piedi, semafori, strisce pedonali, quasi mezz’ora di treno. Da quando ho ricevuto la diagnosi di iperattività di mio figlio ho sempre evitato di parlarne e, confesso miseramente, durante le disperate ricerche di giovedì sera, quando mi avevano avvisata della mobilitazione della stampa, è stato il mio primo pensiero: «E se viene fuori?» «E se scoprono le catacombe che abbiamo costruito noi famiglie di neuro divergenti?» Così, mentre i primi articoli e relativi commenti inneggiavano alla brillantezza di pensiero di mio figlio, mi sentivo manchevole, usurpatrice e accerchiata. L’indomani parlando con una amica, guardandomi dritta negli occhi mi dice: «Lisa, ma che paura hai? A te hanno praticamente detto subito che è benigno e ti ipotizzano pure la tanto agognata plusdotazione. Mio figlio invece è autistico, quindi la sua è una neuro divergenza maligna!» E così ho scoperto che il mondo considera la neuro divergenza come un tumore che può presentarsi in forma benigna o maligna, mutevole o cristallizzata, ambientale o genetica. Eppure, quando penso alla neuro divergenza, penso a diversi bambini con cui ho camminato, sognato e lavorato come insegnante e in loro non ho mai colto nulla di maligno da estirpare o rimuovere. Tanto su cui lavorare sì, ma questo non mi ha mai fatto paura. Con il pensiero ho ripercorso i miei vent’anni di insegnamento in cui ho sempre riconosciuto i bambini neuro divergenti e prima ancora di conoscerli personalmente, li ritrovavo nei loro “genitori interrotti”. Li riconoscevo nel fatto che questi genitori ti chiedessero dei figli guardando quasi sempre il pavimento, che vedessero gli inviti ai compleanni dei compagni come gli esami di stato e le vacanze come una maratona senza fine: un’apnea sociale e personale all’interno di un’esistenza già molto poco ossigenata e arieggiata. Invece noi genitori di bambini neuro divergenti ci riconosciamo e agganciamo tra di noi, perché negli ultimi anni i contatti di questi genitori sono aumentati vertiginosamente nella mia rubrica, lasciando indietro quelli che “tanto non capirebbero”. Ebbene sì, in qualsiasi ritrovo quando sento il profumo di neuro divergenza mi ci fiondo come si segue il canto di una sirena, perché di sicuro quel genitore è una di quelle creature rare che non ti giudicherebbero mai e magari potrebbe pure capire te e tuo figlio. Con il duplice ruolo di insegnante e madre mi chiamano spesso mamme disperate, raccontandomi le loro fatiche e le ingiustizie rilevate nel sistema, che possono variare da una scuola privata che ti chiude i battenti al fatto che se vogliono mandare il figlio (magari autistico di livello 1 ad alto funzionamento) a fare un corso intensivo di inglese all’estero devono trovare un accompagnatore, pagarlo e pagare anche l’intero viaggio e soggiorno di quest’ultimo. E se i costi aggiuntivi di questi ragazzi fossero spalmati sulle altre quote? Perché no! Così le battaglie diventano due: quella con il proprio figlio e quella con il sistema, oltre a quella che ti lacera e ti lavora dentro come un muscolo involontario anche quando dormi, respiri o semplicemente fai scorrere dei vestiti sull’attaccapanni di un negozio. Scrivo queste righe nella speranza che questa avventura di mio figlio nel mondo possa aprire qualche spiraglio tra queste due realtà: non voglio scegliere, perché abito entrambe e so che possono convivere serenamente. Lisalberta Castaldi