Inchiesta sugli embrioni, parlano le famiglie vittime: «Abbiamo sofferto, ora la causa collettiva»
Il caso al centro Pma del Delta di Lagosanto. Lo sfogo delle coppie: «Prima ci hanno telefonato per sapere cosa fare con gli embrioni, il giorno dopo abbiamo scoperto dell’inchiesta»
Lagosanto «Vogliamo parlare». I telefoni alla Nuova Ferrara suonano di continuo. Quelle che inizialmente erano timide richieste di informazioni sono diventati col passare dei giorni delle vere e propri sfoghi. Racconti, dettagli, cartelle cliniche e soprattutto dolore, tanto dolore. Quando si affronta un percorso di Pma si mettono in conto tante cose e tante altre le si imparano man mano. La Procreazione medicalmente assistita è un viaggio ricco di emozioni verso la realizzazione del sogno di diventare genitore. È inevitabile, quando si ha difficoltà ad ottenere una gravidanza, entrare in una voragine di pensieri, paure e tristezze. Lo sconforto prende il sopravvento nella quotidianità ed è facile perdere la fiducia in sé stessi e la speranza di essere genitore. «Il punto è che noi ci sentiamo presi in giro da coloro cui abbiamo affidato davvero tutto. E più ci confrontiamo, più il gruppo diventa grande più troviamo la forza di andare avanti verso una causa collettiva. Ed è quello che faremo».
La telefonata
A parlare è una coppia di Ferrara. Il racconto di quello che ha passato è ricco di dettagli, di rabbia e di lacrime. «Cercheremo di essere quanto più possibile obiettivi e lucidi, perché sia ben chiaro quello che è successo – spiegano -. Partiamo dalla fine, da quella che consideriamo una presa in giro vera e propria. Dall’ultima pugnalata. Giovedì scorso siamo stati contattati dal Centro di Pma del Delta, dove siamo in cura da due anni circa. Abbiamo ancora lì due blastocisti crioconservate. Ci hanno chiamato chiedendo cosa avessimo intenzione di fare con i nostri embrioni (la blastocisti è uno stadio di sviluppo di un embrione di 5-6 giorni) visto che non ci sentivano da qualche tempo. Venerdì mattina è uscito l’articolo della Nuova Ferrara sull’indagine al Centro. Ci siamo sentiti mancare. Un colpo durissimo, l’ennesimo. Noi come tanti altri. Perché quella telefonata? Perché proprio il giorno prima? Perché nessuno ci ha detto niente di quello che stava succedendo?». E qui inizia il lungo sfogo.
Il percorso
«Ci siamo rivolti al Delta con mille speranze. Abbiamo iniziato il percorso e anche i dubbi sulla nostra scelta. Un ambiente freddo, arido ma vabbè, forse, ci dicevamo, è così ovunque. Inizio la stimolazione e nel 2024 mi sottopongo al primo prelievo ovocitario, il pick up. Il giorno prima ho dolori fortissimi, atroci, tanto che finisco in pronto soccorso. Passa la notte e vado al Delta. Mi portano in sala operatoria, mi legano come da prassi mani e piedi e mi mettono una flebo. Io ero sveglia. Intontita ma sveglia. Sentivo il dottore e le infermiere parlare, ricordo tutto».
Una premessa «mi avevano chiesto peso e altezza perché servivano per l’anestesia. Ma io l’anestesista non l’ho mai incontrato». La ragazza dall’altro capo del telefono si ferma, non trattiene le lacrime. «Ho sentito un dolore atroce, pregavo di farmi l’anestesia, ma niente. Soffrivo ma dentro di me dicevo, va bene, adesso finisce e almeno potrò andare avanti. Prima era toccato ad un’altra ragazza, anche lei piangeva dal male». Quel giorno «prelevarono 18 ovuli. Forse troppi, forse non so. Comunque si formarono quattro balstocisti e dopo circa sei giorni fecero il transfer con due mentre altre due le congelarono. Andò male. Fisicamente e psicologicamente ero troppo provata così ci siamo presi del tempo». Fino a giovedì scorso. «Quella chiamata ci ha letteralmente sconvolti. Ha riaperto ferite profonde, ci hanno messo davanti ad una scelta che in quel momento non abbiamo fatto per poi il giorno dopo leggere che adesso è tutto sospeso. Non abbiamo ricevuto mail, spiegazioni. Ok, possiamo andare in altri centri, ma dove? E chi ci assicura che i nostri embrioni non si danneggino nel trasferimento? È stato nominato un Commissario, un garante, qualcuno? Ecco perché stiamo pensando ad un’azione legale collettiva. Perché abbiamo tanto, troppo da raccontare».
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