Una nuova sede in centro per Artemisia Opere, dove ciò che si scarta diventa arte
L’attività commerciale artistica di Laura Morselli ha traslocato in via Trivellari 21, tra corso Canalchiaro e il mercato Albinelli: «Realizzo lampade o mobili con ciò che i clienti mi portano da casa, come quelli della nonna, che tante volte si conservano per il valore affettivo»
MODENA. A pendere dal lampadario non ci sono gocce di cristallo o di vetro di Murano, ma lunghe catene di bicicletta, tutte agganciate ad una ruota trovata casualmente vicino ad un cassonetto. «La ruota aveva un cartellino con la scritta “1977”, il mio anno di nascita. Non potevo lasciarla lì», racconta Laura Morselli, titolare di Artemisia Opere, un negozio in cui una teiera può diventare un nido per uccellini. L’attività, che si è traslocata in via Trivellari 21 e ha inaugurato i suoi nuovi spazi da pochi giorni, dà nuova vita, significato e spesso funzione ad oggetti che hanno alle spalle una storia da condividere o un passato sconosciuto.
Perché scegliere via Trivellari, in pieno centro, ma secondaria rispetto alle strade principali?
«Artemisia Opere è nata tre anni fa, ma era in piazzale Torti, dove purtroppo non aveva visibilità, così ho cercato un altro posto. Questa via è un collegamento tra corso Canalchiaro e il mercato Albinelli, passa tanta gente. E poi l’unione fa la forza: il fatto che ci siano altre attività commerciali vicine è un aiuto reciproco».
Morselli, lei crea componenti d’arredo con materiali di recupero. Un esempio?
«Ho trovato vicino a un cassonetto alcune diapositive che raccontano una storia d’amore, nell’unica datata, del ’90, c’è un bambino appena nato. Con queste ho realizzato un paralume, ma posso riproporre l’idea anche con le diapositive di proprietà. È un’era archiviata, ma è bello ritrovare i ricordi di una famiglia e averli sempre sott’occhio».
Cosa significa per lei lavorare con i ricordi?
«Realizzo lampade o mobili con ciò che i clienti mi portano da casa, come quelli della nonna, che tante volte si conservano per il loro valore affettivo, ma dei quali non ci piace lo stile. Magari sono in legno massiccio, perché comprarne altri in impiallacciato e buttarli via? C’è troppo “rusco” in giro, bisogna iniziare veramente a capire che le cose devono essere recuperate. Ad esempio, dopo 17 anni di onorata carriera mi dispiaceva che la mia lavatrice venisse completamente rottamata, con il cestello ho realizzato il cappello di una lampada. Un altro cestello è diventato un porta-vino».
In vetrina, una vecchia autoclave è stata trasformata in un mobiletto mini-bar. Qual è la sua storia?
«Ne ho realizzati diversi, uno anche con l’autoclave del pozzo del mio giardino, che si era bucata. Quando l’ho aperta c’era una crosta di ruggine importante, l’ho dovuta ripulire. Adoro lavorare con la ruggine, perché sono le rughe del ferro, ha lo stesso valore di una nonna che ti racconta la sua vita. All’interno ho inserito delle mensole di vetro che ruotano. È nato un mobile, che tra vent’anni magari potrà essere tagliato per realizzare un braciere o una fioriera. La sua storia è ancora lunga».
Qual è la genesi di tutti questi pezzi d’arredamento?
«Questi oggetti nascono di pancia, non c’è dietro un logica. Mi è stato chiesto da tante persone di tenere dei workshop, ma per me è impossibile, faccio fatica a progettare. Il mio lavoro è in divenire. Per realizzare una lampada sono partita da un retino da pesca di mio nonno a cui si era rotta la molla. Ci deve essere la capacità di lavorare i materiali. Come mi disse un mio carissimo amico, mi lascio guidare dagli imprevisti, non mi oppongo mai ad essi».
