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Argenta, Caprioni torna dall’Africa Race: «È stata un’esperienza micidiale»

Nicola Campacci
Argenta, Caprioni torna dall’Africa Race: «È stata un’esperienza micidiale»

Settecento km al giorno, condizioni estreme e poche ore di sonno

25 gennaio 2024
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Argenta Paolo Caprioni è appena tornato dall’Africa Eco Race, la vecchia Parigi-Dakar. «L’Africa Eco Race – spiega – non può usare il nome Dakar, che ora è in Arabia Saudita. Sono due gare distinte che partono a 2 giorni di distanza; nella Dakar ci sono le case ufficiali come Honda o Ktm, nella nostra invece no la direzione preferisce i privati per quanto riguarda le auto mentre per le moto sono già arrivate case come Aprilia. Noi team Kapriony siamo scesi in pista come Ducati, prima volta che succede».

Ormai la Dakar è stata comprata per l’80% dagli Emiri, e si svolge lontano dal vecchio percorso, per una questione di media e di pubblico. «Il percorso dell’Africa Eco Race – precisa Paolo Caprioni – è rimasto quello di 40 anni fa, per mantenere la tradizione. Si parte ora da Montecarlo, ti imbarchi a Marsiglia e arrivi in Marocco. Da lì Mauritania, Senegal fino al Lago Rosa a Dakar. Esattamente 7mila km di speciale. L’assistenza compresa di camion ne fa 9.800. Tutto in 15 giorni con un giorno di riposo in mezzo». Un’atmosfera “atrocemente pesante”, con i piloti tesissimi e Caprioni ha visto come in tutti questi 5 anni la situazione sia addirittura peggiorata, con una competitività al massimo. Sgranati i primi 2/3 giorni, però, l’atmosfera cambia completamente. Ci si aiuta e si diventa amici. Quando si arriva in fondo si “lega” anche con i più forti, che però, aggiunge, «sono limitati dall’ufficialità». Una corsa che è fatta anche di sfumature culturali, che per il corridore del team Kapriony da pilota non si sentono e non si vedono. A marcare questo, dice «io, 2 anni fa, sono tornato da turista per vedere dov’ero stato. Posti meravigliosi».

Sul rapporto con i locali, aggiunge, «non ci sono contatti con la popolazione, in quanto i campi-tenda dell’organizzazione sono montati fuori dai villaggi per evitare conflitti anche religiosi. Un campo stra-autonomo, con bagni, docce e cucine». Le limitazioni riguardano anche il cibo esterno al campo, che potrebbe portare a malattie. Il due volte campione continua dicendo che «ciò è possibile grazie alle autorità locali, che accerchiano il campo e il percorso. I meno esperti vanno anche nel panico su questa situazione ma io personalmente no perché mi sento tutelato. Nel percorso vedi comunque i blindati ai confini con Libia e Algeria dove c’è maggiore rischio».

Una gara estrema in cui succede che qualche partecipante possa infortunarsi o in casi isolati perdere anche la vita. «Quest’anno da noi fortunatamente non è morto nessuno. A me personalmente è capitato un episodio alla settima tappa, a poco più di metà. Sono volato giù da una duna ma non mi sono fatto nulla, se non una contusione. Un finlandese era agganciato a me, per faticare meno anche sulla navigazione, e dopo che mi ero alzato lui è volato nel vuoto e non dava segni di vita. Gli ho dato il primo soccorso: gli ho tolto casco e airbag e tramite il telefono satellitare che abbiamo in dotazione ho chiamato l’elicottero che è arrivato dopo 7 minuti, e lì sono potuto ripartire. L’organizzazione sa quanto sei stato fermo tramite il satellitare e ti ridà il tempo indietro alla sera. Io sono ripartito che lo stavano intubando, perciò pensi a questo costantemente e vai al 70/80%, e questo ha condizionato tutto, anche perché si è saputo poi come stava solo 3 giorni dopo».

Davanti alla domanda su cosa si prova durante il percorso, «si fa fatica a rispondere». Sono 8/9 ore di moto ogni giorno a gas aperto, e anche i privati vanno fortissimo. «Arrivi, dai qualche istruzione al meccanico, vai nella tenda, ti alzi, mangi, vai a letto e alle 4 ti devi già alzare. Dopo il quarto giorno le forze cominciano a mancare. Sembra di stare sulla luna per due motivi: sei in un tunnel micidiale, dove non usi il cellulare per via della trance. In secondo luogo per il paesaggio dove vedi la neve e subito dopo sei sulla sabbia, con posti dove il turista non andrà mai». L’organizzazione fornisce un “road book”, una carta da mettere sul manubrio che ti dice dove devi andare. La distribuzione è però cambiata nel tempo perché «gli ufficiali con gli uomini mappa tracciavano il percorso su Google Maps e si sentivano sicuri, ma era un errore. Ora il foglio viene dato mezz’ora prima della partenza della tappa e ci si mette venti minuti a montarlo, quindi vai alla cieca. Loro inizialmente ti dicono più che altro il terreno su cui vai».

Un tracciato massacrante. «Non vedi l’ora di arrivare perché per fare 700 km ogni giorno ti alleni con una preparazione atletica micidiale che non cambia per i primi o per gli ultimi. Per questo è la gara più dura del mondo».