«Un peperino questo Cascella», quella volta di Bruno Pizzul a Ferrara
Il 28 febbraio 1976 telecronaca di Spal-Genoa affidata all’emergente giornalista. Il suo ricordo nelle parole di Paolo Negri a cui ha scritto anche la prefazione di un libro
Ferrara Tra le mie “carte”, in quell’anta della libreria deputata ad accogliere vecchi giornali, riviste calcistiche italiane e straniere, pubblicazioni e stampe di e sul football, conservo con cura una piccola reliquia per me preziosa. È la pagina 37 della Nuova Ferrara di sabato 13 agosto 2022. Quella che reca una meravigliosa intervista (ma sarebbe meglio definirla conversazione, dialogo) di Fabrizio Bocca a Bruno Pizzul. Sì, lui, il cantore del “bel calcio che fu”, l’inconfondibile voce che ha tenuto incollati allo schermo tanti di noi, o forse tutti. E per farlo non aveva bisogno di strillare, di esaltarsi – enfatico e adrenalinico – per una qualsivoglia banalità. Stile, sobrietà, cultura, passione, misura: il suo marchio di fabbrica.
Lo stile
«La cosa più bella di una partita di calcio è l’emozione, e non va condizionata», asseriva Pizzul. Che continuava: «Li apprezzo tutti (i telecronisti di oggi, ndr), li ammiro per le cose che sanno. Ma hanno reso complicato e difficile uno sport popolare proprio per la sua semplicità...Non mi convince l’abuso di covercianese, l’uso di termini complicati e non comuni. E poi nelle telecronache di oggi si parla troppo. La cornice ha preso il sopravvento, lo spettacolo è diventato il commento stesso. E non va bene, almeno per me... Credo che lo spettatore abbia anche diritto a maturare una sua idea della partita, senza doverlo convincere a forza di chissà quale tesi». Già, vallo a raccontare oggi, in queste ore in cui siamo freschi orfani di un’icona del giornalismo e in cui siamo compressi tra Champions, Europa e lotta scudetto (e, alle nostre latitudini ferraresi, della forse utopistica impresa di evitare i playout). Eh, ma Pizzul era, e rimane, un maestro e un signore. Il suo tratto distintivo. L’umanità. Posso ben dirlo, io che in fondo l’ho conosciuto direttamente. Già, perché a lui mi rivolsi, con deferenza e con il malcelato timore di un rifiuto, quando gli telefonai (linea fissa, nella sua abitazione milanese) per chiedergli se mai avesse accettato di vergare la prefazione per “La mia Spal”, il libro che avevo in cantiere e che sarebbe stato pubblicato nel maggio del 2004. Nell’occasione giocai immediatamente all’attacco, ricordandogli un vecchio aneddoto personale che mi legava indissolubilmente a lui. Feci un salto all’indietro, a quella bellissima metà degli anni ’70, epoca magica in cui non imperava il potere televisivo, non c’era l’orgia catodica di football che domina oggidì. Per questo si poteva fantasticare. Sognare. Vivere e assaporare l’attesa. Quella, ad esempio, che caratterizzava certi finali di settimana, quando – giovani malati di Spal – si sperava che la domenica sera potessero passare in tv le immagini dei biancazzurri. Per indicarli orgogliosi al mondo. Il sabato pomeriggio aveva riti irrinunciabili. Tra questi, se la partita del giorno dopo al Comunale fosse considerata di cartello, una puntatina verso lo stadio, per verificare se ci fosse stato – bianco e imponente, parcheggiato tra la Tribuna e la Curva Est – il “carrozzone” con la gigantesca scritta Rai radiotelevisione italiana. Ecco, quella sarebbe stata la presenza sinonimo di conferma: la sera dopo avremmo visto la Spal in tv. “Un tempo di una partita di serie B”. Già, era cadetteria. Ma per noi valeva la Coppa dei Campioni.
La Spal commentata da Pizzul
Così, quel sabato (il 28 febbraio 1976) il cuore balzò a mille quando fu visivamente certificato l’arrivo di “mamma Rai”: Spal-Genoa, il giorno successivo, sarebbe stata trasmessa in tutta Italia. Con il commento di Bruno Pizzul, telecronista in grande ascesa, che, dopo il debutto in Rai nel 1970, era nel frattempo diventato la voce della serie B. La partita, allo stadio, fu bellissima: 1-1 di qualità tra una grande Spal e un Genoa destinato alla promozione, Paina a rispondere a Pruzzo. E fu altrettanto meraviglioso correre a casa e attendere impazienti l’orario d’inizio della telecronaca. Venne trasmesso il secondo tempo, quello dei due gol, cui assistetti davanti al televisore della sala da pranzo, in compagnia del nonno Bonfiglio, sobbalzando di piacere quando la già inconfondibile voce di Pizzul sentenziò «eh, è un peperino questo Cascella», celebrando uno degli spunti del mio idolo assoluto.
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Ecco, nel corso di quella telefonata raccontai tutto ciò a Pizzul. Il quale fu molto amabile, disponibile, umilmente compiaciuto che ci si potesse ricordare di quella sua vecchia telecronaca. Pizzul acconsentì immediatamente la mia richiesta (quella della prefazione), mi chiese d’inviargli la bozza del libro e poco tempo dopo mi spedì il suo scritto. Non di circostanza, bensì sincero, profondo, sentito. Con riferimenti personali: «Anch’io, come molti altri ragazzi friulani, ho partecipato a parecchi dei provini che la Spal organizzava su dalle nostre parti, se mi hanno chiamato per vedermi magari mi prendono... Invece, a testimonianza dello scrupolo e della competenza del mitico Paolo Mazza e dei suoi collaboratori, alla Spal non mi presero mai e così mi toccò di scendere a consumare le mie illusioni pallonare nella lontana Sicilia (Pizzul, prima d’intraprendere la strada dell’insegnamento e poi quella del giornalismo, è stato calciatore professionista giocando, tra le altre, nel Catania, ndr)». Aggiunse parole d’amore: «Ferrara mi è cara anche perché è la città della Spal». Apprezzamento per un tratto inconfondibile di Ferrara stessa: «Una città è tanto più civile quanto i suoi abitanti usano la bicicletta per i normali spostamenti urbani. Verifico con soddisfazione che i ferraresi mantengono viva questa lodevole abitudine e un po’ li invidio, avvilito da quotidiani tormenti personali, dato che mi ostino a girare in bicicletta nell’assurdo groviglio di lamiere automobilistiche del traffico milanese».
La Spal e Paolo Mazza
E dopo varie considerazioni, e un riferimento a Fabio Capello («Chi non lo conosce lo ritiene un antipaticone duro e freddo, basterebbe che lo sentisse parlare della Spal e di Ferrara per rettificare il giudizio»), chiuse con queste righe: «La Spal è patrimonio per l’intero sport italiano. E chissà che l’epopea dei tempi di Paolo Mazza, largo ai giovani e spese all’osso, non ridiventi necessario modello di riferimento per il calcio odierno, alla ricerca di una strada che lo liberi dalle fin troppo evidenti attuali difficoltà e brutture. Utopia? Forse, ma il calcio si nutre anche di sogni». Estremamente applicabile alla realtà di oggi, diremmo. Se tra giornalisti è consuetudine “darsi del tu”, allora mi sia consentito rivolgermi così a Pizzul: “Tutto molto bello”, come amavi declamare tu, Bruno, cantore di un calcio umano e comprensibile.