Erano centesi le origini del celebre politico Disraeli
L’antica famiglia di ebrei sefarditi era emigrata a Londra prima della sua nascita Convertito al Cristianesimo, divenne primo interprete del patriottismo inglese
di GIUSEPPE BRESCIA
D. i antica famiglia di ebrei sefarditi di Cento, emigrata a Londra cinquant’anni prima della sua nascita, nel 1804 (duecent'anni prima dell’altro centese dalle medesime origini, il fine ispanista Ezio Levi, di cui parliamo sotto), l’ultimogenito Benjamin Disraeli era meglio noto dagli inglesi come D’Israeli, a memoria delle sue radici. Tuttavia, a seguito di controversie economiche con la comunità sefardita londinese, nel 1817 il padre decise la conversione dei propri figli al Cristianesimo. Al giovane Benjamin fu quindi consentito l’accesso al Parlamento, fino alla legge del 1858 interdetto ai cittadini inglesi d’origine ebraica, raggiungendo alti traguardi in campo politico e letterario. Fu romanziere prolifico di avventure amorose e sociali, cultore di costumi orientali e mémore di antichi legami con la famiglia portoghese dei Villareal, recepiti ‘per li rami’. Ma soprattutto divenne ‘il’ leader del partito Conservatore, distinguendosi dal coevo esponente Robert Peel e contrapponendosi al partito Liberale di William Gladstone, grande amico dell’Italia, dei mazziniani e patrioti risorgimentali.
Promosse una forma di “conservatorismo compassionevole”, nella prospettiva di un riavvicinamento tra sovrani, nobili e popolo, che riconciliasse «Due nazioni che non hanno reciproche relazioni e non provavano reciproche simpatie». Erede di una famiglia di “esclusi” (benché poi “integrati”), proclamò in un celebrato discorso a proposito dei rapporti di classe in Gran Bretagna: «Ciascuna di esse ignora i pensieri e i sentimenti dell’altra, come se vivessero in diverse regioni o abitassero diversi pianeti: ricchi e poveri».
Tenne alto il sentimento patrio, fino ai limiti delle opzioni imperialistiche. Un poco come il nostro Carducci, passato dalle ragioni risorgimentali o repubblicane all’elogio della Regina Margherita (sempre con la mira di esaltare il ruolo nazionale unitario dell’Italia, e dell’Itala gente dalle molte vite), nella convinzione di rinsaldare il sentimento patriottico popolare, Disraeli prima comprò per conto del Governo britannico parte delle azioni della società che amministrava il canale egiziano di Suez (1875), tributò l’anno dopo il titolo di imperatrice dell’India alla Regina Vittoria; quindi impedì alla Russia di imporre alla Turchia un trattato umiliante, riconosciuto perciò come grande statista nel Congresso di Berlino del 1878. La sua morte, nel 1881, fu onorata personalmente dalla regina Vittoria.
Di quando in quando, il suo nome ritorna in sede pubblicistica (Sergio Romano sul Corriere del 20 aprile 2014; Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky, “La maschera democratica dell’oligarchia”, Bari 2014 e La Stampa del 31 maggio 2014), con speciale riferimento anche a un punto notevole (bisognevole certo di approfondimento e precisazione) della cosiddetta “teoria del complotto”, di cui sarebbero forma la “oligarchia” degli antichi, il cenno di Benjamin Constant nel celebre discorso del 1819 a proposito della vittoria finale della “ricchezza” in contrasto con il “potere”, la caratterizzazione marziana dei governi come “comitato d’affari della borghesia” (1848 ) e la tesi dei “padroni del vapore” di Ernesto Rossi nei laterziani “Libri del tempo” del 1956. In questo campo, insiste (o insisterebbe) il monito del Disraeli: «Il mondo è governato da tutt’altri personaggi rispetto a quelli che si immaginano coloro che non spingono lo sguardo dietro il proscenio». L’allusione alle ricostruzioni delle influenze di circoli, club, comitati, logge e interessi variamente coniugati sulle vicende etico-politiche attuali è di piena evidenza (ovviamente, purché si affrontino tutte le urgenze e le combinazioni di probabili consorterie, bancarie, imprenditoriali, finanziarie o persino cooperativistiche: “episteme” vuol dire, per Giorgio De Santillana citato da Italo Calvino, “fronteggiare” e prender di petto, per la qual cosa è necessaria, appunto, la “visione globale” della “prospettiva”).
Ma senza il presupposto etico del “conservatorismo compassionevole”, l’estrapolazione rischia di essere “adiafora”, “indifferenziata” e parzialmente fuorviante. Alla stregua della citazione del discorso del Constant, la cui mira principale risiede nell’appello rivolto ai nobili francesi del suo tempo a coltivare la spinta all’autoperfezionamento (in senso etico) piuttosto che alla ricerca della felicità in quanto tale (in senso eudaimonistico o edonistico), all’interno della più ampia caratterizzazione del rapporto tra “libertà degli antichi” (la polis ma anche l’ostracismo) e “libertà dei moderni” (diritti individuali). Siffatti appaiono dunque prolegomeni della “religione della libertà”, o elementi riconducibili nel seno della contemporanea formulazione risorgimentale e crociana della “religione della libertà” (non escluso il senso più profondo della tenace polemica su liberismo e liberalismo, condotta da Croce nel rispetto di Luigi Einaudi). Del resto, anche il fine critico Geno Pampaloni, sul “Mondo” e in “Fedele alle amicizie” (e con lui, e prima di lui, Mario Pannunzio) parlavano di pericoli di “sopraggoverno”, in grado di inficiare la tenuta della liberaldemocrazia (in riferimento ai risvolti del trattato di Jalta, foriero di doppiezza).
Ma due sono ancora i punti radicali e profondi sollevati dalla questione.
Primo punto. Già l’avvertenza del male, del rischio di “complotto” (ove mai acclarato) forma una prima barriera a tutela della liberaldemocrazia: da “Last man in Europe” (direbbe Orwell di “1984”), o “Buio a mezzogiorno” (direbbe Arthur Koestler), o “senso del celeste” (da Pierre Bezuchov di “Guerra e pace”), e dai tanti perseguitati dell’antisemitismo e dalla Shoah (Ernesta Battisti Bittanti, Eugenio Colorni, Attilio Momigliano, Leone Ginzburg, Giorgio Bassani, Leo Valiani “Mario” di “Schiuma della terra”) al “Satana ha riempito il cielo di santi” (del testimone Aristide per il carcere rumeno di Pitesti, attivo fino al 1959, visitato in “Musica per lupi” da Dario Fertilio). Interviene qui l’acquisto ‘matematico’ del teorema di Hayek, a proposito delle conseguenze non intenzionali di azioni umane intenzionali, dal momento che le catene causali tra gli individui sono infinite e la “sapienza è dispersa tra miliardi di individui”.
Secondo punto. Che succede quando il “grande giuoco” non riesce? (comunque esperito da circoli, consorterie, comitati d’affari, illuminati e via). Perché “non riesce”: e gli interessi si elidono, e si avvicendano, fra loro (pur con grave rischio per la collettività). Ecco che si riscopre la “religione della Libertà”, la quale - come insegna Croce - “ha per sé l’eterno”, e “ha bisogno della mano sinistra e della mano destra, perché regge il tutto”.
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