La Nuova Ferrara

Goberti, camicie e corde simboli di contraddizione

di ANDREA SAMARITANI
Goberti, camicie e corde simboli di contraddizione

Il pittore 75enne è stato prima insegnante e poi preside al Dosso Dossi

26 ottobre 2014
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di ANDREA SAMARITANI

M. i accoglie con addosso una camicia a righe. Elemento importante per un detective cronista d’arte come me, visto che tutt’attorno ci sono quadri con particolari molto ravvicinati di camicie, o anche solo colli di camicia, tutti rigorosamente a righe. Non ho avuto la scaltrezza di chiedergli se il suo look è studiato o casuale, per paura mi dicesse che è casuale. Voglio pensare sia studiato, che le righe dei suoi quadri siano il continuum delle righe della sua camicia, e viceversa. Le stesse righe che mettono ordine nella sua concezione della pittura: filosofica e riflessiva. Se ingrandisco un particolare delle foto della sua camicia viene fuori un facsimile di un suo quadro, gioco di riflessi e di rimandi che, ne sono convinto, Gianfranco Goberti apprezzerebbe. Ma voglio stare al mio posto e non glielo propongo.

Lo studio. Siamo in via Vignatagliata, studio allestito nel 2010, nel cuore del ghetto ebraico. Prima di questo ne ha avuti diversi, in Porta San Pietro, in Corso Isonzo, in via Romei, in via XX Settembre. Il primo studio è stato quello più bohemienne di tutti: in Cortevecchia, a 19 anni, un vano alto, unica presa di luce un abbaino, per arrivarci doveva passare dal sottotetto, evitando i topi. Tutti gli studi di Goberti sono sempre e comunque dentro le mura cittadine. Lo studio ha il parquet per terra, davanti a me, al centro dello studio, un grande quadro raffigurante un cielo impacchettato da due corde, verticale ed orizzontale, che proiettano una ambigua, e improbabile, ombra sul cielo stesso come fosse una superficie bidimensionale.

Gli inizi. Goberti nasce a Ferrara, in via Suore, nel 1939. Si diploma all’Istituto d’arte Dosso Dossi, poi frequenta l’Accademia di Belle Arti a Bologna, allievo di Pompilio Mandelli. Dopo aver conseguito l’abilitazione per l’insegnamento, è docente di decorazione al Dosso Dossi fino all’82, divenendone poi preside per dieci anni. Partiamo da qui, dagli anni del Dosso Dossi: «Gli anni Ottanta sono stati molto stimolanti per la scuola che dirigevo - racconta -, ero riuscito ad aprire lo spazio mostre al piano terra, lo stesso che ancora oggi ospita esposizioni a ciclo continuo. Attraverso i miei contatti con altri artisti ho invitato autori importanti, da Uncini a Max Klinger, a Pozzati, per citarne alcuni e famosi illustratori, tra i quali Sergio Toppi e Alarico Gattia, un modo per fare lezione dal vivo per gli alunni, e in molti casi, farli incontrare e dialogare con loro».

«Poi ho lasciato la scuola perché è prevalsa la voglia di vivere la mia pittura a tempo pieno - prosegue Gianfranco -, ho approfondito i miei maestri storici. Picasso, fra tutti, per il senso di grande libertà e inventiva. Mi ha fatto coniare un paradigma che ancora oggi ho ben scolpito in testa: l’elogio della incoerenza - parafrasando l’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam -. Poi Giotto, Masaccio e Piero della Francesca, tre giganti che hanno prodotto l’arte moderna e hanno creato le basi della mia estetica».

La sua arte. Per capire l’arte di Goberti credo sia necessario ascoltarlo, parlarci, perché dietro la superficie delle sue tele c’è un pensiero forte, filosofico, a volte anche provocatorio. Come quella sua frase ripetuta tante volte: «Non mi stupirei oggi di vedere uscire Giotto da un supermercato». Che non è una trovata da pubblicitario, ma la conclusione di una lunga riflessione sulla storia dell’arte che, dice Goberti , «E tutta contemporanea». Questa riflessione l’aveva già scritta nel catalogo di una sua mostra personale al Palazzo Comunale di Nonantola (Mo), nel 1990. «La mia pittura è la costante di una sorta di chiaro scuro che determina una rigatura; le camicie, le poltrone a righe, le corde, sono costituite da un’intermittenza di chiaro scuro. Dipingo dagli anni Sessanta poltrone riflesse e specchi. I cieli legati da corde suggeriscono il materiale e l’immateriale, contraddizioni che Giorgio Di Genova, presentando una mia mostra, definì “contraddizioni aggiustate”. Ho disegnato corde legate, poi le ho fatte esplodere. Una metafora della vita. L’arte non cambia la realtà, ma può provocare sensazioni nel profondo, a livello filosofico, etico ed estetico».

Poi prosegue di fila nel suo pensiero, «Dall’industrializzazione della fine del Settecento l’arte ha perduto la sua funzione al servizio del potere religioso e nobiliare e, con l’avvento dell’industrializzazione, l’artista non ha più committenti. Con il nuovo potere industriale nasce la borghesia, la pubblicità; nasce la pittura di cavalletto e l’artista diventa committente di se stesso, nel contempo, funzionale al potere industriale, è diventato il ‘pubblicitario’. Ma l’artista, padrone di se stesso, non ha abdicato alla sua funzione e ha continuato ad esistere e produrre arte straordinaria».

Ecco spiegata la provocazione su Giotto e la sua contemporaneità.

«Non riesco a rifare le stesse cose. Percorro una discontinuità. Dichiaro una coerente instabilità», insiste a ragione Goberti. Insomma, siamo lontani anni luce da paesaggini impressionisti, ritratti compiacenti, forme classiche e cliché. Gli 800 quadri, più o meno, realizzati nella sua carriera stanno lì a testimoniarlo. Tele concepite come pagine di un lungo racconto surreale, di una realtà che la si vede attraverso il filtro della storia dell’arte. «Con gli artisti ferraresi della mia generazione c’è una ferraresitudine di antica radice, che parte dalla Grande Officina e che ci ha visti negli anni Settanta molto solidali, parlo di me, Bonora, Guidi e Zanni. Abbiamo tenuto diverse mostre insieme, avevamo costituito il Gruppo Quattro. Poi ognuno ha continuato la sua strada».

Le mostre. Tra le mostre che Goberti ricorda con maggior piacere c’è la “Venere Svelata” per Bruxelles nel 2003, ideata da Umberto Eco e curata da Omar Calabrese, in occasione della Presidenza italiana del semestre dell’Unione Europea, invitato ad esporre il quadro Stoffa Annodata con un lavoro ispirato alla Venere di Urbino di Tiziano. In mostra si è trovato affiancato, in una grande sala del Palais des Beaux Art di Bruxelles, a Christo, Durer, Escher, Crippa e Balla. Del suo lavoro si è interessato più volte Vittorio Sgarbi, ed altri nomi prestigiosi: Flaminio Gualdoni, Gillo Dorfles, Pierre Restany, Giorgio Barberi Squarotti, Lucio Scardino, Vittoria Coen, Giorgio di Genova e Vera Manuelle. Nell’80 è stato finalista al Premio Bolaffi con Adami, Cassano, Bulgarelli, Paladino e Paolini.

Nel ’65 è stato invitato alla Quadriennale di Roma: esponeva due crocefissioni ancora oggi nel suo studio. Mi racconta di essere sceso a Roma con una cabriolet sportiva insieme al suo ex professore al Dosso Dossi, lo scultore Giuseppe Virgili. Nel 2013 ha invece esposto alla Biennale di Venezia.

La Metafisica. Siamo alla vigilia della ricorrenza della nascita della Metafisica a Ferrara, Goberti ne può parlare a pieno titolo, da artista illuminato: «Nell’Officina ferrarese c’era già della metafisica. Quando De Chirico l’ha definita all’inizio del secolo scorso, in realtà ha ricongiunto due momenti storici lontani tra loro, ma vicinissimi artisticamente parlando. La metafisica ci ha lasciato un senso di straniamento, una sorta di contraddizione interna, dove gli opposti trovano una mediazione. Il mio “cielo legato” ne è una sintesi».

Tutta la pittura di Goberti è un filo che lega le opere fra loro. In molte sue tele gli oggetti escono dalla tela, come per congiungersi con qualcos’altro: un pennello che diventa soggetto, la corda disegnata che diventa tridimensionale. La poltrona che si umanizza e diventa simbolo della nostra società: sedentaria, pigra e indolente.

Istintivamente mi alzo dalla poltrona dove sono seduto da due ore, per non diventare pigro ed indolente anch’io. Saluto Gianfranco, ed esco per camminare, nelle vie di una Ferrara che adesso mi sembra più magica e surreale di prima. Alzo lo sguardo al cielo nell’illusione di vedere una corda che avvolge le nuvole. Non la vedo. È lo stesso, tanto c’è nelle tele di Gianfranco e ora anche nella mia testa.

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