La tragica e perduta vicenda della dottoressa Zamorani
Recuperate foto e informazioni della pediatra morta nel ’44 ad Auschwitz
Un solo grande rammarico rimase al termine della presentazione del libro di autori vari I medici ebrei e la cultura ebraica a Ferrara (Faust edizioni) avvenuto il 30 aprile durante la 5ª Festa nazionale del Libro ebraico. L’ultimo capitolo del libro, che ripercorre quasi in senso cronologico la storia dei medici ebrei a Ferrara, è dedicato alla pediatra Maria Zamorani.
Dopo la Shoah, di lei si erano perse le tracce, faticosamente ritrovate e ricostruite dall’autore ma nemmeno una fotografia a restituirci le sue sembianze. Ultimo contatto conosciuto: Polonia, Auschwitz, 1944. Qui tra l’estate e l’ autunno si perdono le tracce della dottoressa Maria Zamorani, pediatra dell’Arcispedale Sant’Anna. Nubile, aveva 50 anni, era nata il 4 novembre del 1893 e abitava a Ferrara, in via Montebello 38. Al contrario di altre figure della Shoah, di lei si è quasi persa persino la memoria. Solo recentemente, 2010, nel libro di Raffaella Simili Sotto falso nome - scienziate italiane ebree (1938-1945) era stata brevemente citata, forse perché associata alla più nota Enrica Calabresi, sempre nata a Ferrara, studentessa negli stessi anni della Zamorani al Liceo classico “Ariosto”, e ripetutamente ricordata da Margherita Hack, come sua docente a Firenze. La Zamorani compare fra gli ultimi nomi incisi nel marmo della grande lapide posta sulla facciata della Sinagoga di via Mazzini.
Non è stato facile ricostruire la sua vicenda umana e scientifica, perché con le leggi razziali fu cancellato tanto ma, fortunatamente, non tutto. Fu purtroppo espulsa anche dall’Accademia delle Scienze di Ferrara. Ecco quindi la sua storia, partendo dalla fine, attraverso le poche tracce e documenti d’archivio non scomparsi e per fortuna recuperati.
La fine della storia
Siamo a Ferrara, inizi del 1944, in piena Seconda Guerra Mondiale, con la città occupata dalle truppe tedesche e dopo l’armistizio dell’Italia. Il questore Visioli il 22 aprile ’44 dava l’ordine perché fosse disposta la traduzione straordinaria di sei persone (Bruno e Giulio Conegliano, Mario Ravenna, Maria Zamorani, Emma Zevi e Edgardo Finzi) al campo di concentramento di Fossoli di Carpi (Mo). Da questo campo di raccolta e passaggio, gli ebrei caricati sui treni, partivano con destinazione i lager della Germania. Con documento dell’8 maggio del ’44 la Polizia Repubblicana Questura di Ferrara confermava di aver consegnato le sei persone indicate alla Gnr (Guardia nazionale repubblicana). Questo è l’epilogo di Maria, nonostante si fosse operato da parte di molti, ma non di tutti, per evitarlo. Già con le leggi del ’38 sulla razza, la situazione si era fatta difficile per gli italiani di religione ebraica. Fu come un uragano: perdita del lavoro, proibizioni e divieti vari, vendita o cessione dei beni immobili di persone ebree quando superassero un certo reddito, in aggiunta furono radiati da Università, Accademie, scuole, istituti e fondazioni, costretti a scomparire, darsi alla fuga, alla clandestinità, nascondersi. La legge prevedeva alcune eccezioni, che il Ministero, a domanda, poteva concedere, ma il giudizio era molto arbitrario.
La dottoressa, per i tanti meriti acquisiti e riconosciuti, sperava in questo riconoscimento e si era attivata, con specifica domanda a chiederlo, subito dopo l’uscita della legge. Nel ’39, incredibilmente, la Federazione dei fasci di combattimento di Ferrara, con documento protocollo 3440, a firma del dottor Lino Balbo, aveva espresso alla Regia Prefettura parere favorevole alla domanda della Zamorani. Ma ciò non bastò. Per gli anni a seguire fino all’estate del ’43 fu seguita sempre più da vicino dalla polizia. La situazione nazionale dopo l’8 settembre ’43 era precipitata, in particolare a Ferrara dopo l’eccidio del Castello Estense ed altri fatti di sangue. La città era stata occupata dai tedeschi ed erano cominciati i bombardamenti. Come tanti altri ebrei era entrata nel mirino e tra febbraio e marzo ’44 per la Zamorani il cerchio si stava chiudendo. La Questura la controllava sempre più da vicino. Conscia del pericolo cercò rifugio in un posto a lei familiare, l’ospedale; ne abbiamo conferma da un’informativa del 3 marzo ’44 prot. N.568/4/5 con cui la direzione sanitaria comunicava alla questura che la dottoressa era ricoverata nella struttura.
Il 17 marzo il primario Dell’Acqua, con lettera ufficiale, giustificava ampiamente, per le gravi condizioni di salute descritte, il ricovero. La Zamorani conosceva bene l’Ospedale Sant’Anna dove nell’inverno del ’20, unica donna, aveva vinto il concorso, sbaragliando altri concorrenti uomini. Nell’archivio storico dell’Arcispedale ho rintracciato con fatica e fortuna due documenti che disegnano ulteriormente il quadro di una donna che aveva scelto la professione medica come scopo principale della sua vita. Già quando studiava medicina e chirurgia all’Università di Bologna era fra le migliori ed a Genova si era poi laureata il 20 luglio del ’8, ottenendo una votazione di 110/110 con lode. Ancora fra le prime si era classificata al Liceo “Ariosto” nell’11 con il massimo dei voti.
L’attività scientifica
Durante la ricerca sono emersi anche riferimenti a suoi lavori scientifici. In tali articoli si concentrava su un argomento prediletto, cioé quello delle anemie e della emolisi con ricerche di patologia spontanea e sperimentale, lavori eseguiti e pubblicati in collaborazione con altri autori. Dopo aver raccolto abbondante materiale scientifico ed esaminato con metodi chimici fra i più moderni, risultavano dimostrati, anche a conferma di una ipotesi di ricerca che la stessa Zamorani aveva ipotizzato in un precedente lavoro gli stretti rapporti tra il pigmento ed alcuni lipoidi nel fegato e nella milza di uomini e di animali in cui si svolgono processi locali o generali di emolisi.
La tragica storia familiare
Nella tragica vicenda di Maria non si può non citare l’altrettanto drammatica storia del fratello e del nipote, abitanti anch’essi nella casa di via Montebello. Il fratello Emilio, commerciante, era nato il 20 settembre del 1890: nel ’44 con il figlio Massimo, dell’età di 25 anni, si allontanarono da Ferrara. Li troviamo nell’agosto dello stesso anno a Faenza (Ra), catturati ed imprigionati. Dal carcere sono prelevati dai tedeschi, insieme ad altri quattro prigionieri, per una rappresaglia seguita al ferimento di un loro soldato. Portati nel retro di Villa Belli a San Tomé, davanti a duecento persone costrette ad assistere, furono impiccati su forche improvvisate nel cortile della villa. Era il 9 settembre, i corpi furono lasciati due giorni penzolare dalle corde, prima di lasciarli seppellire in una fossa comune. Saranno riesumati solo nell’aprile ’45. I Zamorani furono identificati per ultimi, solo grazie ai documenti rimasti nelle tasche degli abiti, da Maria Rossi, moglie di Emilio. La storia dell’eccidio è lunghissima che si protrae giudizialmente fino ai giorni nostri con la sentenza di condanna del tribunale di La Spezia del 3 novembre 2006 per Heinrich Nordhorn, ancora vivente in Germania, per delitto militare di guerra, concorso in violenza con omicidio in danno di privati non belligeranti, pluriaggravato e commesso in concorso formale e continuato da militari tedeschi in San Tomé presso Forlì alla data del 9 settembre ’44. Con la morte dei Zamorani (Maria, Emilio e Massimo) di fatto era stata annientata un’intera famiglia, colpevole solo di professare un’altra religione.
La ricerca della foto
Solo grazie a d un pronipote di Bologna, nel 2010, l’archivio dei nomi della Shoah in Israele, lo Yad Vashem, è riuscito a ricostruire, anche se in modo parziale ed incompleto le loro tre schede anagrafiche inserite nel database consultabile via web. Per Maria purtroppo non si era trovata alcuna foto a ricordarne il volto. Fratello e sorella morirono, dispersi, divisi e lontani dalle proprie case, ignari e senza mai sapere il destino reciproco come fu per tanti in quegli anni tragici della nostra storia. Non avere neppure una sua foto ha commosso lettori e spettatori ogni volta che il libro era presentato. I membri dell’Associazione De Humanitate Sanctae Annae e pure cittadini comuni si sono attivati nella ricerca per recuperare almeno una sua foto. Per mesi è sembrata una missione impossibile, troppo lontana nel tempo, si trovava sempre qualcosa che portava vicino, ma non c’era la certezza scientifica assoluta. Così è stato per il pronipote Giovanni, che aveva recuperato vecchie foto di gruppi di famiglia, nella quale Paola Caselli Modestino aveva riconosciuto con buona approssimazione Maria; ulteriore conferma perveniva da Silvia Villani attraverso il ritrovamento di una pubblicazione del ’15 che ritraeva in una foto le Dame del Comitato della Croce rossa ferrarese la cui sottostante didascalia comprendeva anche il nome della Zamorani; ma a quale immagine del gruppo si riferiva il nominativo?
La ricerca continuava ed ogni tanto perveniva qualche segnalazione. Pochi giorni fa una telefonata di Leopoldo Santini per annunciare di aver comprato da un libraio di Bologna un vecchio album con le foto di medici e veterinari ferraresi di quegli anni e aver trovato fra esse quella di Maria Zamorani. Era fatta, finalmente eravamo riusciti a recuperare non solo la memoria ma anche le sembianze, il volto, della pediatra, ebrea, nostra concittadina, una donna perduta nella Shoah.
Carlo Magri
(Associazione De Humanitate
Sanchtae Annae)