La Nuova Ferrara

Cappa di silenzio sulle poetesse del passato

Cappa di silenzio sulle poetesse del passato

La storica ferrarese Monica Farnetti ne racconta le vicissitudini: «Erano brave come gli uomini, ma furono censurate»

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Da sempre conosciamo la figura femminile come musa ispiratrice della penna dei più famosi tra poeti e prosatori, eppure esiste più di qualche esempio di come le donne abbiano saputo vivere tra le pagine degli autori ed allo stesso tempo abbiano conservato e sviluppato la capacità di creare vere e proprie opere d’arte. Questi testi, troppo spesso perduti, sono capolavori considerabili almeno al pari delle opere letterarie che generalmente si insegnano a scuola, ed indagandone le origini, non si può prescindere dal lavoro di ricerca della professoressa ferrarese Monica Farnetti, che ha raccolto le esperienze letterarie di otto poetesse italiane del ’500 in un volume edito da Iacobelli Editore, Liriche del Cinquecento.

Quali sono le particolarità delle autrici che ha studiato?

«Il Rinascimento è la prima stagione della cultura italiana ed europea in cui non solo le donne emergono nella scena della scrittura, ma vi partecipano “in gruppo”. Quasi tutte nel ’500 sono rimatrici, ed essendo petrarchiste ricadono in una tradizione codificata e precisa. La grandissima novità è il modo che esse utilizzano per giocare con la lingua e con i ritmi della poesia: stanno in bilico tra il rispetto del passato e una nuova libertà inventiva. Le poetesse sfruttano i canoni sul piano tecnico, sulle forme e sulle stile, e dagli studi emerge la loro cultura e la grande competenza con cui dominano gli strumenti metrici. Sul piano della poetica, però, si discostano non poco dalle tematiche tradizionali: le loro fonti sono numerosissime, sanno verseggiare nelle forme più diverse, usare la poesia a più livelli, sanno far tesoro della tradizione e dei classici, latini e contemporanei. Essendo donne sono costrette a modellare sulla propria identità i canoni della tradizione, e il codice tramite loro “esplode”».

Chi sono, nel dettaglio, queste liriche del Cinquecento?

«Non parliamo soltanto di donne aristocratiche, ma troviamo poetesse in molti ceti sociali, anche nella borghesia. Il grande tema è l’amore, però tutte loro, a differenza dei poeti della tradizione, partono da un dato sensibile: il loro saper desiderare ardentemente. Nei loro discorsi è attestata una capacità di desiderio abnorme, che oltrepassa le convenzioni e la rete dei riferimenti soliti, perché non bastano: le autrici riescono a mettere se stesse dentro i propri testi, sconvolgendo i luoghi comuni. La caposcuola è Vittoria Colonna, con una capacità di amare così grande che rende sacro ogni tipo di amore, nella vedovanza ella si chiuse in un percorso spirituale, innalzando alla sacralità l’oggetto d’amore, tanto che risulta difficile comprendere quando sta parlando di sacro o di profano. Gaspara Stampa ci insegna invece il suo grandissimo rispetto per la vita e l’amore come esperienza terrena, Veronica Gambara è una delle prime che mette in scena un’altra forma dell’amore, poiché tratta dell’amore tra donne, inteso come forma d’amicizia. La relazione di queste autrici si esprime nello scambio di versi, nel confronto di testi, ma anche nella vicinanza affettiva. Esiste una profonda solidarietà femminile, non si trova competizione. E, ancora, Veronica Franco, cortigiana colta: quando lei parla d’amore è letterale, pensa all’atto erotico. È veramente scandalosa, se si pensa all’epoca in cui visse».

Come è possibile che non si sia saputo niente di loro fino a pochi anni fa?

«Di queste poetesse mancano testi e documenti, sono state trascurate per 500 anni in modo incredibile. In un primo momento c’è stata un’operazione di censura vera e propria e, in seguito, sono cadute nel dimenticatoio. Ma d’ora in poi vanno messe in luce, non importa cosa sia successo prima. Ci sono, sono tante, e sono splendenti. Come abbiamo fatto a pensare non esistessero?».

Irene Lodi

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