La Nuova Ferrara

Le chiese di Ferrara

San Domenico vittima del tempo. Il monastero divenne “brutt cisón” a causa di lavori sbagliati e bombe

Micaela Torboli
San Domenico vittima del tempo. Il monastero divenne “brutt cisón” a causa di lavori sbagliati e bombe

Il complesso fu costruito nel XIII secolo: fu base dell’Inquisizione e prima sede universitaria in città

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Quanto fosse elegante e speciale la chiesa di San Domenico, prima che uno sgraziato rinnovo settecentesco ne variasse le linee architettoniche e gli interni, si può immaginare: basta dare un’occhiata a quello che ora è il portale minore di Schifanoia, ornato dalla fine del XIX secolo con le spoglie di un raffinato manufatto proveniente dalla fase rinascimentale del distrutto, antico tempio domenicano, nato allo scorcio del Duecento, poi ampliato nel tempo per meglio ospitare i Domini canes, i “cani di Dio”. Frati guardiani della Parola insidiata dalle eresie, seguaci dello spagnolo Domenico di Guzmán, morto a Bologna nel 1221 e santo dal 1234. Per combatterle si era andata formando la Santa Inquisizione, solidamente con il Concilio di Avignone del 1200 e permessi interrogatori e torture.

INTERVENTI E DANNI

Neanche mezzo secolo dopo la dipartita di Domenico, avvenuta ben vicino a Ferrara, venne eretta la chiesa, un edificio orientato all’opposto di quello odierno. Il suo monastero era tanto grande da giungere fino a dove oggi si trovano le Poste Centrali. Comprendeva le Crocette, base strategica della Inquisizione domenicana, oratorio ma ospitante anche corporazioni, e soprattutto prima sede universitaria, fin dal 1391. L’intervento traumatico del 1726, operato da Vincenzo Santini, stravolse il tempio, risultato afasico nonché superbioso, come si diceva una volta, ovvero burbero e altero, ma senza spessore. Inoltre la chiesa ha subito danni bellici e tellurici, e le modifiche l’hanno resa quella che Carlo Bassi definiva, in dialetto, “un brutt cisón”.

INQUISIZIONE IN CITTA'

Le opere d’arte sopravvissute, molto domenicane, e anche le tombe illustri ancora a pavimento e non, sono tutte degne di attenzione. Ma vale la pena di soffermarsi sul ruolo dell’Inquisizione a Ferrara. Il primo inquisitore in città fu Guido da Montebello, per altri invece Aldobrandino da Reggio OP, ovvero dell’Ordine dei Predicatori (prediche veementi, come poi quelle di Savonarola, anche lui OP), dal 1254; l’ultimo Vincenzo Masetti, fino all’arrivo dei Francesi, grossomodo 1799. Con la Restaurazione si tentò di ripristinare il sistema, però non era più il caso. L’attività inquisitoriale a Ferrara gode di studi attenti di Cantimori, Fragnito e Prosperi. L’episodio più noto è quello riguardante il teologo Giorgio Siculo, condannato per eresia e strangolato in una cella in Castello Estense il 23 maggio 1551. Si ricorda il potente Inquisitore generale per gli Stati estensi (1568-1572), il ferrarese fra Paolo Costabili. Ricco, coltissimo, Costabili affrontava decisioni di vita o di morte in assoluta serenità d’animo (ma con partecipazione dato che un testimone disse che a sentir parlare di eresia «avvampava nel viso e pareva che gettasse fuoco»), convinto com’era di agire per la salvaguardia della fede. Con il frate ebbe a che fare il Tasso, guardingo riguardo l’ortodossia della sua Gerusalemme liberata.

ENTRATE IN DENARO

La macchina inquisitoriale ferrarese si nutriva di entrate economiche regolari, la cui natura è stata esaminata da Germano Maifreda (I denari dell’inquisitore. Affari e giustizia nell’Italia moderna, Torino 2014). Non di rado l’Inquisizione era erede di beni o esecutrice testamentaria. Con i proventi i frati compravano terre e case, messi a reddito. Maifreda cita in breve un caso di eresia che coinvolse «un tal Ottaviano Gillioli», o meglio Giglioli, senza però valutarne il peso. Ottaviano di Tomaso Giglioli faceva parte di una abbiente schiatta ferrarese. Venne condannato per le sue idee nel 1564 ma “solo” ad una pena pecuniaria, 300 scudi d’oro. Scampando dalla morte. Il reo, indebitato, non poteva pagare tutto quanto chiesto, e neppure i suoi figli, Tomaso ed Alessandro, vi provvedevano.

ARCHIVIO PERDUTO

Entrò in scena il duca Alfonso II d’Este, che girava di tasca sua parte dei danari all’Inquisitore, il rigoroso Camillo Campeggi. Duro sì, ma molto vicino ai regnanti dai quali evidentemente Ottaviano era protetto. Meglio non calcare la mano. Per chiudere e finirla, Ottaviano cedette ai frati alcune possessioni. Si espanse sempre più una fiorente attività creditizia domenicana, grazie a concessioni di capitali e contratti di censo o livello. Redditi ed entrate erano fruttuose e stabili, perché l’azione inquisitoriale era costante, e, come dimostra il caso Giglioli, non si fermava neanche davanti a famiglie potenti, che anzi erano nel mirino per non nobili motivi ma prevedendo una spennatura in piena regola, senza limitarsi a pizzicare gente in odore di eresia ma di condizione sociale disagiata, quindi incapaci di pagare per salvarsi. Gli Estensi, memori dei problemi dati dal calvinismo di Renata di Francia, madre del duca, per evitare guai sorressero con apposite grida le crescenti confische. Queste pratiche, molto efficienti, continuarono anche dopo la Devoluzione. Poco si sa del poi, perché l’archivio dell’Inquisizione di Ferrara è perduto. Sopravvive a stento la sua centrale operativa, la diruta chiesa di San Domenico. Sic transit gloria mundi. —

(2 - continua)

Micaela Torboli