La Nuova Ferrara

L’intervista

Ferrara, Vasco Brondi e il nuovo disco: “Le canzoni possono illuminare”

Samuele Govoni

	Vasco Brondi / foto Valentina Sommariva
Vasco Brondi / foto Valentina Sommariva

“Un segno di vita”, per una geografia dell’anima. Il cantautore: «Ho scavato, cercato l’essenza»

14 marzo 2024
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Ferrara Vasco Brondi ha la capacità di trasmettere emozioni, di rievocare ricordi e di infondere coraggio. Lo fa sapientemente, azionando i “meccanismi del cuore”, cambiando ma rimanendo sempre se stesso. In “Un segno di vita”, nuovo album in uscita oggi, il cantautore ferrarese ci mette tutto e in quel tutto ci siamo anche noi. I casini quotidiani, i divari interni, le gioie e i dolori, i rapporti umani, l’amore e la guerra sono argomenti e sensazioni che tratteggiano un sentire comune. Il privato diventa pubblico senza perdere d’intimità e così parole e musiche si trasformano in canzoni capaci di illuminare. Dieci brani sinceri, dirompenti, che si infilano sotto pelle e arrivano dritti al cuore.

Il 21 marzo Vasco Brondi presenterà il disco alla sala Estense di Ferrara, in attesa di quel momento si racconta ai lettori della Nuova.

Vasco, come nasce “Un segno di vita”?

«Questo disco è nato da una ricerca, è stato come togliere un altro strato per scavare in profondità e avvicinarmi una volta di più al nucleo di me e della Terra. “Un segno di vita” è nato non appena ho finito di lavorare a “Paesaggio dopo la battaglia”. La prima canzone che ho scritto è stata “Vista mare”, l’ultima “Un segno di vita” e in mezzo sono passati tre anni pieni di cose. Penso che questo disco si avvicini di più ai primi che all’ultimo; ci sono meno ballate, è più movimentato e la voce è sempre davanti».

Come si è approcciato al nuovo lavoro?

«Ho lavorato sulla forma canzone classica: strofa, ritornello. Mi sembrava la cosa più sperimentale da fare, mi interessava capire come muovermi in quel contesto e come da quel formato riuscire ad andare oltre i confini e mettere in musica le parole. “Un segno di vita” ha sonorità più pop, un pop alla mia maniera, un po’ travisato e in qualche modo rovinato da me. Ha l’immediatezza e l’urgenza del punk, quell’impalcatura che ho gridato nei primi dischi l’ho portata anche in questo».

I viaggi, le scoperte, la meditazione e il suo rapporto con la Terra influiscono nella scrittura?

«Tantissimo. Non ci sono particolari confini nella mia vita tra scrivere e vivere. Tutto entra dentro. Magari le canzoni escono dopo anni ma quando arrivano le sento. Attraverso di loro riesco a capire qualcosa in più di me. Dentro ci sono io. Ci sono i viaggi, i labirinti che ho costruito, i miei casini commessi per fame e sete di vita. Tutto entra nelle canzoni».

In passato aveva detto che per scrivere aveva bisogno di tornare a Ferrara, è ancora così?

«Sì, è ancora così. Ferrara è un posto dove scrivo moltissimo. Quando torno solitamente mi chiudo in casa e scrivo. Sono sempre precario, in affitto da una parte o dall’altra, e invece a Ferrara mi sono costruito uno spazio tutto mio. Ho anche un piccolo studio. Quando torno in città non mi si vede spesso in giro. La biblioteca Ariostea e l’argine di Francolino sono l’apice della mia mondanità. A Ferrara mi sento bene, qui ho le mie radici e tornando provo un senso di pace».

Il disco è accompagnato da “Diario di lavorazione (o piccolo manuale di pop impopolare)”, un volume che permette all’ascoltatore di avvicinarsi ancora di più alle canzoni. Di cosa si tratta?

«Il diario di lavorazione è una cosa che uso per me e che poi alla fine condivido con tutti. Lo scrivo in parallelo, mi aiuta a tenere in ordine i pensieri. È come svolgere un esercizio quotidiano di scrittura. Durante il lavoro non parlo molto di quello che succede però alla fine mi piace poter approfondire il percorso attraverso un libro. È un po’ come se fosse il romanzo di formazione del disco, cose immaginate che diventano reali».

Qual è stata la sfida maggiore?

«Semplificare. Togliere è un lavoro in più. Ho tolto tante canzoni da questo disco, avrebbe potuto essere un album doppio ma ho scelto di mantenere i brani essenziali. I miei amici e collaboratori scherzando hanno detto che “Un segno di vita” è un di best of, anche se non si saprà. Sono stato micidiale nel togliere, nel cercare solo il necessario. È stata una scelta difficile e liberatoria allo stesso tempo».

È un disco pieno di sonorità nuove, suggestioni, messaggi e vita. Come si è approcciato alle canzoni?

«In maniera artigianale, lavorando di più sulla metrica e sulla rima. Ho studiato meglio Lucio Dalla e Fabrizio De André. Riuscire a trovare il giusto equilibrio tra metrica e contenuto, riuscire a dire esattamente ciò che si vuole e allo stesso tempo farlo suonare... l’artigianato sta lì. Se suonano bene e hanno significato le canzoni possono fare scintille e restare accese. In “Fuori città” mi avvicino all’hip hop e allo stesso tempo richiamo certe atmosfere degli inizi. È stato come chiudere un cerchio».

Martedì è uscita “Fuoco dentro”, con Nada. Com’è nata la collaborazione?

«Sono onoratissimo di questa cosa, Nada la ascolto da sempre ed è una delle mie preferite in assoluto. L’ho conosciuta a Reggio Emilia tramite Massimo Zamboni (Cccp, ndr) e poi quando è uscito “Paesaggio dopo la battaglia” mi ha chiamato ed è stata una telefonata toccante. Mi ha detto che era rimasta colpita dalle canzoni. Quando ho scritto “Fuoco dentro” ho pensato subito a lei, anche se ci ho messo mesi prima di decidermi a mandargliela. Alla fine l’ho fatto e lei mi ha detto sì. Siamo andati da lei io e Fede Dragogna, l’abbiamo registrata a casa sua ed è stato bellissimo».