La Nuova Ferrara

L’intervista

Conquiste e sconfitte degli hippie: Amadei a Ferrara con “I nipoti dei fiori”

Samuele Govoni
Conquiste e sconfitte degli hippie: Amadei a Ferrara con “I nipoti dei fiori”

Il 4 giugno all’arena estiva il regista incontrerà il pubblico. Il documentario prende le mosse dalla sua infanzia

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Ferrara Conto alla rovescia per l’inizio dell’arena estiva a parco Pareschi (corso Giovecca, Ferrara). Si comincia il 3 giugno con il biopic su Bob Dylan ma è il 4 il primo grande evento. Mercoledì alle 21.30, infatti, verrà proiettato “I nipoti dei fiori”, film documentario di Aureliano Amadei, già autore di “20 sigarette” e “Il leone di Orvieto”. Amadei, che nel 2011 aveva presentato “20 sigarette” davanti a un cinema Apollo gremito, torna a Ferrara con questa nuova opera che affonda le radici nella sua infanzia. In vista dell’incontro con il pubblico ferrarese il regista si racconta.
Aureliano, come nasce “I nipoti dei fiori”?
«Come molti titoli che stanno uscendo in questi anni, il documentario è stato scritto durante il lockdown. Con la mia compagna, che è sceneggiatrice, abbiamo deciso di mettere nero su bianco un’idea che mi portavo dentro dall’inizio della mia vita cinematografica. Ho vissuto cose pazzesche, sin da bambino e ho sempre sentito il bisogno di raccontarle».
C’è stato un momento preciso in cui ha sentito il bisogno e la voglia di raccontare questa storia? Perché?
«La necessità è legata all’adolescenza dei miei figli. Avere figli adolescenti oggi è difficile per tutti. Ma in me è esplosa un’insofferenza incontenibile verso i molti fenomeni di omologazione che osservo nella loro generazione. Ho scoperto che il mio era un punto di vista più estremo, privilegiato, per descrivere un sentimento che tocca molti genitori».
È stato subito pronti via o il progetto è rimasto nel cassetto prima di prendere forma?
«Lo abbiamo scritto abbastanza di getto. Però per realizzarlo ci sono voluti più di 4 anni. Ma questo dipende dal meccanismo di finanziamento del Cinema in Italia, che uccide le piccole produzioni, specialmente per i documentari. Ma il bello del Cinema del Reale è che prende forma strada facendo e il risultato è sempre una sorpresa».
Lei stesso è un “nipote dei fiori”, com’è stato tornare a quei giorni?
«Solo ora possiamo renderci conto di quanto abbiamo perso. I nostri genitori, hippie e non, hanno vissuto un mondo più aperto, ricco e libero. Purtroppo proprio quella generazione ha così goduto di quel mondo, da lasciarci le briciole, per non dire le macerie. Questo genera un po’ di nostalgia, ma anche un po’ di rabbia...».
Com’è stata la sua infanzia?
«Ricca. Non so se felice, ma sicuramente intensa. Molti di noi, più avanti, hanno dovuto prendere le distanze da quel mondo. Nel film affermo: “Io gli rimprovero di non aver avuto le palle di andare fino in fondo”».
C’è stato un momento in cui ha sentito il bisogno di prendere le distanze dalla cultura hippie?
«In adolescenza sono diventato punk, al grido di “Never trust a hippie”. Convinto di essere quanto di più lontano da quella cultura. Poi, confrontandomi con gli altri nipoti dei fiori, mi sono accorto che la mia reazione è stata abbastanza simile a quella dei miei genitori, solo traslata in un’altra epoca».
Nel documentario incontra e intervista altri “nipoti dei fiori”. Ha riscontrato elementi comuni nelle vite e nei racconti o ognuno ha il proprio percorso?
«Ci riconosciamo a un chilometro di distanza. A partire dal nome. I personaggi del film si chiamano Ram, Yesan, Icaro, Amaranta, Arco, Hiram, Tzaddi... abbiamo decisamente dei tratti comuni (non tutti, ovviamente). Ma è stato divertente scoprire che in varie zone d’Italia si sono vissute esperienze molto diverse. Una specie di puzzle della cultura hippie».
Qual è il ricordo più vivo della sua infanzia?
«Ripeto, ho vissuto cose che voi umani non potete immaginare. Ne cito uno: a 6 anni mi hanno portato per un lungo periodo a Gopalpur on Sea, sulla cosa Est dell’India. Lì pagavamo i pescatori per portarci sulle loro barche fatte di tronchi legati insieme. Abbiamo pescato e portato a bordo uno squalo bianco vivo e vivace. I pescatori lo tenevano a bada con i piedi nudi sul muso. Dopo la corsa a riva, lo squalo è stato trascinato sulla spiaggia ancora vivo. Toccava ai bambini (tutti del posto tranne me) ucciderlo, facendo un girotondo che passava sul suo corpo, a pochi centimetri dalle fauci».
Da quando ha cominciato a lavorare al documentario non si è più fermato o ci sono stati momenti di stallo? Ha mai pensato di rinunciare?
«Ci sono stati momenti drammatici, perché le regole imposte dagli Enti finanziatori, mi hanno costretto a girare in pochissime settimane, dopo un lavoro di preparazione di anni. Tutto fermo fino al giorno in cui diventa una corsa contro il tempo. In quelle poche settimane, ho somatizzato molto lo stress ed ero consapevole che se avessi perduto colpi proprio in quella breve finestra, avrei perso tutto».
Cosa resta oggi dei figli dei fiori? E dei nipoti?
«I figli dei fiori hanno preso le strade più varie, spesso inattese. Vanno da Steve Jobs al santone induista che ancora balla scalzo. I nipoti mi hanno colpito per essere tutto sommato dei ragazzi molto risolti, con una grande capacità di analisi. Comunque verrebbe da dire che sia gli uni che gli altri sono stati sconfitti dalla Storia».