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Il cold case

Mesola, l’omicidio Minguzzi «fu un delitto di mafia»

Federico Spadoni
Mesola, l’omicidio Minguzzi «fu un delitto di mafia»

La morte del 21enne di Alfonsine, che faceva il carabiniere di leva a Mesola, «fu un classico esempio di lupara bianca». In altre parole «un omicidio di stampo mafioso», dice la sentenza sul cold case Minguzzi

08 febbraio 2023
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Ravenna Pier Paolo Minguzzi non fu ucciso nel corso di un sequestro di persona a scopo estorsivo. La morte del 21enne di Alfonsine, che faceva il carabiniere di leva a Mesola, «fu un classico esempio di lupara bianca». In altre parole «un omicidio di stampo mafioso», un’esecuzione «per ragioni che tutt’ora restano sconosciute» architettata da professionisti, che la notte tra il 20 e il 21 aprile del 1987 rapirono il ragazzo per ucciderlo nell’immediatezza e nasconderne il cadavere gettandolo nel Po di Volano, dove riemerse l’1 maggio seguente.

È questa l’interpretazione del presidente della corte d’assise di Ravenna, Michele Leoni, per il cold case riaperto nel 2018. Una lettura dei fatti resa nota ora nelle 277 pagine della sentenza che il 22 giugno scorso è valsa la piena assoluzione per il 58enne Orazio Tasca, il 59enne Angelo Del Dotto, all’epoca carabinieri della Stazione di Alfonsine, e per il 66enne Alfredo Tarroni, in quegli anni idraulico nella località ai confini tra la provincia ravennate e ferrarese.

Innocenti i tre i imputati (difesi dagli avvocati Andrea Maestri, Gianluca Silenzi e Luca Orsini), nonostante su di loro pesasse l’arresto due mesi dopo per l’estorsione tentata alla famiglia Contarini (fra le più note famiglie d’imprenditori nel campo dell’ortofrutta ad Alfonsine, al pari dei Minguzzi), culminata il 13 luglio seguente con la morte del carabiniere Sebastiano Vetrano alla consegna dei soldi (episodio costato a tutti condanne tra i 22 e i 25 anni). Fatti profondamente diversi dal delitto Minguzzi, secondo il collegio penale di Ravenna, che punto per punto confuta le argomentazioni sulla base delle quali la procura aveva chiesto tre ergastoli.

Sono le condizioni in cui il corpo del povero Pier Paolo fu rinvenuto a indirizzare i giudici verso una direzione completamente opposta a quella presa dal sostituto procuratore Marilù Gattelli. Incappucciato con un foro che gli consentisse di vedere, legato con il metodo dell’incaprettamento, «esecuzione capitale», scrive il giudice, bloccandogli manie e piedi dietro la schiena con una corda fatta passare intorno al collo, affinché il ragazzo si soffocasse da solo ad ogni movimento. Roba da professionisti, con «una tecnica consolidata», e non appresa da «un giornaletto», vale a dire la rivista erotica “I Piccanti”, trovata nell’armadietto di Tasca con un’orecchia nella pagina raffigurante una ragazza legata con una pratica di bondage.

Citando il referto del medico legale, il giudice estensore riflette sulla datazione della morte del giovane, collocata poco dopo il rapimento. Un atto - scrive - che «non si concilia con le modalità di un sequestro a scopo di lucro». Eppure, tornando all’ipotesi accusatoria, sia i Minguzzi che i Contarini ricevettero all’epoca telefonate estorsive con la stessa richiesta: 300milioni di lire, i primi per rivedere il figlio, i secondi per non fare la stessa fine dei compaesani.

Qui la Corte arriva a ipotizzare più scenari, sostenendo nel caso del sequestro del 21enne che il riscatto sia stato chiesto dagli assassini per simulare un sequestro a scopo estorsivo o per infliggere alla famiglia anche un danno economico. E va oltre, ipotizzando pure la presenza di «sciacalli» svincolati dai reali rapitori, che «per conto loro tentarono di approfittare della scomparsa del ragazzo». Insomma, sintetizzano le motivazioni, «vi furono due delitti» distinti: omicidio volontario e tentata estorsione, quest’ultimo pure prescritto.

Fra le prove portate dall’accusa a carico degli imputati, il collegio si sofferma sul luogo in cui, secondo la ricostruzione fatta dagli inquirenti della Squadra Mobile, Minguzzi sarebbe stato portato, prima di essere ucciso, al casolare “Ca’ Cella” a Vaccolino: un nascondiglio «inidoneo a tenervi un ostaggio», perché meta d’incontri sessuali, «aperto, accessibile e visibilmente frequentato». Le impronte di anfibi rilevate sul posto non sarebbero poi riconducibili agli stivali al cromo in dotazione all’epoca ai carabinieri, dettaglio che avrebbe inguaiato due dei tre imputati.

«Errori su errori», anche sulle auto utilizzate, viste dai testimoni prima della sparizione e durante le indagini; fra tutte la Citroën Squalo avvistata sui luoghi del delitto («ma Tasca aveva una CX Pallas»).

Ampio spazio, infine, anche per confutare quella che era ritenuta “la prova regina”. Vale a dire i lapsus del telefonista anonimo, ricondotto dalla procura a Tasca. Suggestivo il fatto che la voce ignota al telefono avesse esordito facendo confusione e storpiando i cognomi: “Pronto Contarino? Contarini?”, aveva chiesto correggendosi con quello giusto, “Pronto Minguzzo, Minguzzi?”. Errore tipico del siciliano Tasca, reo confesso di essere il telefonista dell’estorsione Contarini. Mancava la comparazione di un esperto di fonologia forense, per dare la prova schiacciante del coinvolgimento dell’ex carabiniere. Eppure, tranchant è stato il responso del professor Luciano Romito, perito fonico nominato dalla Corte: la voce, proveniente da province siciliane diverse da quella d’origine di Tasca, non era quella dell’imputato. E il lapsus, aggiunge il presidente, non può essere una prova.

Prove che mancano, ravvisa il collegio giudicante, così come «anche un solo indizio a sostegno della ricostruzione dei fatti effettuata dall’accusa».

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